Omicidi Fidene: per la psicologa una “tragedia annunciata”

Nessuno si sveglia la mattina, impugna una pistola, e fa ciò che viene attribuito dalla procura di Roma a Claudio Campiti. Ne è certa la professoressa Letizia Caso, associata di psicologia giuridica all’Università Lumsa di Roma

Nessuno si sveglia la mattina, impugna una pistola, e fa ciò che viene attribuito dalla procura di Roma a Claudio Campiti. Ne è certa la professoressa Letizia Caso, associata di psicologia giuridica all’Università Lumsa di Roma.

Nel giorno successivo alla mattanza di via Monte Giberto, nel quartiere Fidene, ci si chiede se ci fossero segnali da interpretare per poter evitare l’uccisione a sangue freddo di tre donne. La docente, pur non conoscendo il quadro complessivo dell’uomo, ha tentato di interpretarne la figura dal blog in cui Campiti sfogava tutta la sua frustrazione e rabbia contro il Consorzio Valleverde ad Ascrea, in provincia di Rieti, in cui abitava. Nella pagina web a lui attribuita, l’uomo scriveva di vivere “senza pubblica illuminazione” perché “si sa al buio si vede meno e si può sparare in tranquillità”. Una condizione di vita amara che Campiti descriveva con frasi del tipo: “Benvenuti all’inferno, qui con il codice penale lo Stato ci va al ces…, denunciare è tempo perso, so’ tutti ladri”.

“Sicuramente colpisce la meticolosità con cui analizza il regolamento del consorzio dimostrando una inaspettata aderenza ai fatti”, spiega la docente dell’università Lumsa, interpellata dall’agenzia Nova. “Quel blog era evidentemente, per lui, un luogo in cui scaricare la rabbia accresciuta anche dalla condizione di solitudine”, aggiunge la professoressa Caso. L’uomo vivendo da solo “non ha avuto un reale confronto con chi avrebbe potuto riportarlo a una condizione di consapevolezza; arrivando a mischiare fatti veri con fatti inventati. Viene da pensare a un disturbo paranoico che lo ha portato a vedere la vita in bianco e nero e a identificare il Consorzio come il nemico da colpire”.

Il 57enne arrestato per triplice omicidio, chiedeva da alcuni anni un porto d’armi sportivo che la questura non gli concedeva. “La richiesta di un’arma – continua Caso – inizialmente la considerava probabilmente come un oggetto per difendersi contro chi, a suo modo di vedere, lo spiava o gli rubava le cose”, così come denuncia sul blog. Ma quella condizione di vittima irrisolta, unita probabilmente anche al lutto per la perdita di un figlio, è sfociata in qualcosa di terribile. “Mi chiedo – dice Caso – perché fosse solo e come mai nessuno, neanche il medico che gli ha rilasciato il certificato per iscriversi a un poligono di tiro, si sia accorto del suo disagio”.

Disagio mentale, quindi, è una definizione che assume una certa importanza per una persona che dovrà sostenere un processo. “Lui pianifica la sua azione in maniera dettagliata”, racconta la docente universitaria riferendosi al fatto che la mattina alle 9 si è presentato al poligono di Tor di Quinto, dove era regolarmente iscritto e, dopo aver preso la pistola e il munizionamento che avrebbe dovuto utilizzare all’interno del perimetro, sulla sola linea di tiro, è andato via per compiere l’efferato delitto. “Difficile poter sostenere l’infermità mentale totale – sottolinea Caso riferendosi a un eventuale processo – probabilmente chi studierà bene la vicenda potrà sostenere la semi infermità ma è presto per dirlo”. La docente però ribadisce la necessità di imparare a interpretare segnali come quelli lanciati da Campiti nel suo blog: “Cose scritte che forse, fino a ieri mattina, facevano sorridere chi le leggeva”, ma che oggi non fanno ridere più alcuno.

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