Subito dopo l’estate i romani, come tanti altri italiani, saranno chiamati alle urne per le elezioni amministrative, ma al di là di quelli che saranno i candidati sindaci e le liste che concorreranno per gli scranni del Campidoglio, in molti si domandano se il voto di ottobre sarà in grado di mobilitare gli elettori capitolini. E sì perché, dopo il lungo periodo di pandemia che ci ha visto confinati in casa e diffidenti verso il prossimo visto come un possibile “untore” di manzoniana memoria e con la scena nazionale dominata da virologi e tecnici al governo del Paese, la politica ed i partiti appaiono sullo sfondo, sfocati e costretti a mettere da parte le divisioni in nome della necessità di mettere insieme tutte le forze per combattere e debellare coronavirus e crisi sociale ed economica.
In questa situazione, appaiono tutti uguali, con leggerissime differenze, e ciò può indurre tanti elettori a disertare le urne perché – potrebbero pensare – l’uno vale l’altro anche se non è così. Se prevarrà questa sensazione, il rischio di astensione massiccia è forte e anche per questo coalizioni e partiti cercano di creare liste civiche di appoggio per avere il maggior numero possibile di candidati al consiglio comunale in modo da coinvolgere familiari ed amici delle persone in lizza per un seggio.
Certo sono cambiati i tempi dalla prima elezione diretta dei sindaci, in particolare a Roma. Nella Capitale, al voto nel novembre del 1993, su 2.317.077 elettori, si recarono alle urne, al primo turno, 1.824.541 (percentuale del 78,74%). E al ballottaggio di due settimane dopo, che vedeva la sfida tra Francesco Rutelli e Gianfranco Fini, gli elettori aumentarono a 1.850.290 alzando la percentuale dei votanti al 9,85 per cento.
Quattro anni dopo, nel 1997, con Rutelli ancora candidato contro il candidato di centrodestra, Pierluigi Borghini, non ci fu bisogno di ballottaggio perché il sindaco uscente ottenne al primo turno il 60.4% dei voti (gli elettori furono 1.704.650 su 2.302.474 aventi diritto, ovvero il 74,04 in percentuale del corpo elettorale). Nel 2001, Walter Veltroni ebbe bisogno del ballottaggio per battere Antonio Tajani (al primo turno, su 2.292.365 iscritti alle liste elettorali, si recarono alle urne in 1.730.733 per una percentuale del 75,50% che calò di poco due settimane dopo, ovvero al 74,15% con 1.699.721 votanti. Nel 2006, riconferma di Veltroni al primo turno con il 61,45% dei voti contro lo sfidante Gianni Alemanno (alle urne si recò il 66 per cento dei romani, ovvero 2.338.711 elettori su 2.564.804). Come si evince dai dati, in queste elezioni si registra una diminuzione di votanti di oltre 9 punti, una tendenza al calo che si registra anche nelle successive e a noi più recenti consultazioni.
Nel 2008, infatti, vittoria di Alemanno sul cavallo di ritorno Rutelli, gli elettori al primo turno furono 1.729.287 su 2.347.502 aventi diritto (57,2%) che calarono a 1.481.795 al ballottaggio (52,9%). Più netto il calo registrato nelle elezioni del 2013 che videro la vittoria di Ignazio Marino contro l’uscente Alemanno. Al primo turno si recò infatti alle urne solo il 44,93 per cento dei romani con una leggera crescita al ballottaggio (45,1%).
Quanto alle ultime elezioni, quelle del 2016, anche perché la competizione non era più a due ma allargata a cinque (centrosinistra, M5S e centrodestra diviso in tre tronconi), i votanti sono tornati a crescere superando la soglia del 50 per cento. Al primo turno i romani che sono andati a votare sono stati 1.287.445 su 2.363.776 aventi diritto (57,19%) per poi calare abbastanza drasticamente nel ballottaggio Virginia Raggi-Roberto Giachetti, quando si è registrato solo un 50,2% di votanti.
Come si vede, dopo un iniziale entusiasmo per l’elezione diretta del sindaco, a Roma si è registrato un progressivo disinteresse per le elezioni comunali. Chissà se si invertirà la tendenza anche se, come detto, il rischio di una crescita dell’astensionismo è forte. Molto forte.