Raddoppiati in cinque anni i Minimarket orientali

Nascita, sviluppo e ragioni del fenomeno che caratterizza le attività alimentari

A Roma ci sono oltre 5.500 attività di generi alimentari gestite da cittadini stranieri. Di cui mille, tra frutterie e minimarket, nate solo nell’ultimo anno e mezzo. Il dato Upvad-Confcommercio descrive la metamorfosi del mercato alimentare della Capitale, sia sul fronte del commercio al dettaglio che in quello dell’ingrosso di prodotti ortofrutticoli. Un fenomeno che ha popolato la città di piccoli minimarket orientali, principalmente bengalesi, che sono collocati in maniera capillare in tutti gli angoli della città, dall’estrema periferia al Centro Storico.

 

Un quarto degli esercizi in mano di extracomunitari

Interessanti anche i dati a livello nazionale, in questo caso presentati da Confesercenti. Nel 2016, il 25% circa delle imprese di minimarket è registrata a nome di un cittadino straniero di nazionalità non Ue. Nel 2011 la percentuale d’imprese a conduzione extracomunitaria era del 7%. In cinque anni, dunque, l’incidenza dei minimarket stranieri sul totale è pressoché raddoppiata.

Il ‘boom’ di minimarket stranieri è un fenomeno evidente anche al grande pubblico, soprattutto nelle altre grandi città, come Milano e Napoli. Il minimarket sembra essere l’attività di riferimento per gli imprenditori arrivati dal subcontinente indiano (Pakistan, India, Bangladesh) ed in particolare per quanto riguarda i bengalesi, titolari del 72% del totale di minimarket a conduzione straniera.

L’opera certosina di colonizzazione commerciale su Roma ha come ‘fortino’ il Rione Monti, dove si contano circa 800 attività tra alimentari, pizzerie e kebab.

L’aumento numerico – a parte le eccezioni di Eur e Parioli, dove sono ancora pochi – non risparmia neanche un’area decentrata come Aurelio-Boccea, che ha visto l’apertura di 50 nuove attività alimentari gestite da stranieri (500 quelle complessive sul territorio) solo nel 2015.

 

In crescita nonostante gli elevati costi di affitto

I negozi che vendono generi alimentari sono spesso subentrati all’abbigliamento. Sorprende come – in tempi di crisi – molte di queste attività riescano ad aprire in zone dove l’affitto dei locali può raggiungere anche i 4000 euro al mese.

Come fanno, dunque, i minimarket orientali ad aprire attività anche all’interno di locali costosi, spesso situati in zone ricche di Roma?

La risposta a questo interrogativo è articolata e segue varie direttrici, da quella burocratica a quella degli escamotages fiscali che molte volte determinano la politica dell’esercizio.

La burocrazia è spesso asfissiante, sì, ma nel caso degli alimentari appare dinamica e snella. Grazie alla Legge Bersani, questo tipo di attività si possono aprire senza licenza, ma con una semplice S.C.I.A., una dichiarazione d’inizio attività, in cui si chiede di aprire un’attività da asporto e non da somministrazione. Visto che gli introiti di queste SRLS derivano in gran parte dalla vendita di alcolici, il presidente di LUPE-Confesercenti Roma, Fabio Mina, ha censito 1508 attività sulle autorizzazioni necessarie. E’ risultato che il 90% degli esercizi non hanno l’UTF, la licenza rilasciata dall’Ufficio Dogane della GDF obbligatoria per la vendita di alcolici e superalcolici.

Sul fronte economico un ruolo fondamentale è giocato dalla propria comunità d’appartenenza. Il primo pensiero è rivolto a quella cinese, capofila di quelle comunità che gestiscono i rapporti sociali ed economici tra i propri connazionali, spesso prestando soldi o invogliando la mutua assistenza. Su questo solco si trova anche la comunità bengalese, dove le prime linee, arrivate in Italia 20 anni fa e diventate ricche con il business degli Internet Point, aiutano le nuove leve ad aprire un’attività commerciale. Un aiuto fatto di prestiti economici, intestazioni di licenze, turni massacranti di lavoro e l’obbligo di riuscire a far quadrare i conti. In caso contrario si cede la licenza a un altro connazionale, una delle ragioni per cui le licenze passano di mano in mano con grande frequenza.

 

Un grande bacino di evasione fiscale

Capitolo infedeltà fiscale: oltre al malcostume dello scontrino che spesso non viene battuto, esistono altri sistemi per eludere il fisco con sistemi apparentemente legali. I minimarket spesso sono anche frutterie e l’escamotage consiste nel battere lo scontrino di una birra con l’IVA dei prodotti ortofrutticoli che è del 4% piuttosto che quella standard al 22%. Un sistema che consente di ricavare illegalmente 180 euro su un importo di 1000 euro (dato ANVA-Confesercenti).

Com’è possibile scovare questa truffa? Basta recarsi in un minimarket e acquistare prima un frutto e poi una birra. Se su entrambi gli scontrini ci sarà la dicitura REP01 (il numero è ininfluente, l’importante è che le sigle siano uguali su entrambi gli scontrini) significa che è avvenuta un’irregolarità. Più sprovveduti gli esercenti che affiancano al prezzo della birra la dicitura “gastronomia” o direttamente “Iva al 4%”.

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