Più che la validità dei progetti predisposti per il Recovery Fund, fra i quali rientrano anche nuove infrastrutture per la Capitale, il nostro Paese deve dimostrare la capacità di realizzarli e quindi di saper spendere i miliardi che riceverà dalla Unione Europea. Tanto più che l’ Italia e le sue regioni sono già famose per la incapacità di spendere i “vecchi” fondi strutturali europei.
L’incapacità cronica di spendere i denari assegnati dalla Ue, è dipesa spesso da una burocrazia inefficiente a livello locale, responsabile di una infinità di ritardi e restia a prendersi delle responsabilità. Occorrerebbe – sostengono alcuni economisti – una maggiore presenza dello Stato centrale nell’incentivare la realizzazione dei progetti e quindi a spendere i fondi assegnati dall’Europa.
Con il Recovery plan si rischia di commettere un errore a rovescio. Ossia di creare una task force con una guida fin troppo salda nelle mani del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e che esclude anche le Pubbliche amministrazioni locali dalla progettazione e dalla realizzazione dei progetti per oltre 200 miliardi, che la Ue dovrebbe mettere a disposizione dell’Italia per rilanciare e rinnovare l’economia piegata dalla pandemia.
E così al di là del piano e prima di ricevere i fondi, scoppia un caso politico sulla gestione degli oltre 200 miliardi che la Ue dovrebbe mettere a disposizione per il rilancio e il rinnovo della nostra economia. Inoltre sulla base delle prime indiscrezioni l’ intervento appare a molti osservatori frammentato, figlio della somma di progetti eterogenei che finirebbero per incrociarsi nei territori, senza sinergie.
Ma soprattutto – osservano il Forum Disuguaglianze e Diversità, Movimenta e Forum PA – sembra ancora mancare la “logica dei risultati attesi”, l’indicazione dei miglioramenti misurabili del benessere collettivo a cui i blocchi di progetti mirano: di quanto si intende ridurre la povertà educativa nelle sue diverse dimensioni? Entro quando? E così per ogni dimensione. Né più né meno di quanto chiede l’Europa.
Su questi risultati attesi, quantificati, – aggiungono – si deve aprire quel confronto che imprese e sindacati stanno chiedendo, su cui i sindaci d’Italia giocheranno un ruolo non sostituibile, e che l’intero sistema delle organizzazioni di cittadinanza è pronto ad accompagnare. Ma c’è di più. Solo partendo da questi risultati attesi diventa possibile identificare le filiere amministrative interessate dall’attuazione: la mappa delle amministrazioni competenti (dai ministeri ai comuni), i “soggetti attuatori”, le caratteristiche delle persone necessarie, che già ci sono o che vanno reclutate in fretta.
L’assenza di questo passaggio – rilevano le tre associazioni – spiega forse il perché dell’architettura della governance che il governo vorrebbe dare al Piano: una sorta di “micro-amministrazione parallela”, quasi un gabinetto di guerra, con i suoi Ministri (i “sei” super-manager) e una sua struttura di cui questi possano servirsi (lo staff di specialisti). Tentare di aggirare le amministrazioni pubbliche invece che rafforzarle, agire in deroga con poteri sostitutivi invece che velocizzare i procedimenti, rinunciare alla possibilità di rinnovare le organizzazioni assumendo giovani con nuovi criteri vorrebbe dire condannare il Piano a un naufragio.
“La burocrazia difensiva – conclude il documento primo firmatario Fabrizio Barca, riferendosi alle defaillance sui vecchi fondi strutturali – non si combatte esautorando le amministrazioni con task force, commissari, superpoteri e norme in deroga, ma rinnovandola e restituendole ruolo, strumenti e responsabilità. In modo da assicurare che ogni soluzione di breve termine non sia estemporanea, ma rappresenti anche il primo passo di un rinnovamento strutturale nel tempo. Ci serve un’altra pubblica amministrazione: è questa la priorità assoluta e la sfida più urgente, l’unica che può consentirci di vincere tutte le altre”.