I proprietari dei beni culturali privati in Italia non riescono più a investire nella manutenzione ordinaria delle loro case, castelli e tenute. Un patrimonio, che costituisce circa il 17% del totale del Paese e che, prima della pandemia, accoglieva 45 milioni di visitatori l’anno (contro i 49 milioni dei musei pubblici) nelle sue oltre 9400 dimore aperte. A lanciare l’allarme è iI II Rapporto dell’Osservatorio del Patrimonio culturale privato, promosso dall’Associazione Dimore Storiche Italiane, Confagricoltura e Confedilizia e realizzato dalla Fondazione Bruno Visentini.
“Nonostante quanto scritto nella Costituzione e quanto generi anche a livello economico e sociale – racconta il presidente dell’Adsi, Giacomo Di Thiene – il patrimonio culturale privato italiano è ancora considerato di serie B e non può neanche attingere a fondi bancari o europei, spesso aperti solo a onlus e beni ecclesiastici. Un grave errore del nostro Paese”, sottolinea, ancora più in questi mesi cruciali con l’arrivo dei fondi del Pnrr. Se, come fotografa il Rapporto, infatti in Italia sono 37.708 i beni culturali privati (di cui 14.375 case storiche, 12.704 palazzi, 5.159 ville, 1.296 castelli e torri), questi sono prevalentemente gestiti da proprietari singoli e dalle loro famiglie (85%), non da grandi società o fondazioni.
Fondamentale è poi la loro diffusione sul territorio. La maggior parte si trova nei centri storici (il 56,8% la media nazionale) ma oltre un quarto delle dimore è in comuni sotto i 5 mila abitanti e il 31,3% in aree rurali, con un forte ruolo di attrattore turistico-culturale e di risorsa contro lo spopolamento. Ma a risuonare nel Rapporto di quest’anno è il crollo verticale delle spese di manutenzione ordinaria, che passano da 1,5 miliardi di euro nel 2017 a 1,3 miliardi nel 2021. Numeri allarmanti, dovuti alla crisi, alla pandemia, alla impossibilità dei privati di sostenere le spese, ma che in ogni caso incidono sulla garanzia di conservazione per le prossime generazioni e sull’occupazione. Dall’altra parte, circa il 38% delle imprese specializzate dichiara invece di trovare difficoltà nel reperire restauratori o artigiani con adeguato livello di conoscenza della materia.
“Eppure, cosa è stato fatto in questi due anni di pandemia? Nulla. E cosa sarebbero Pienza o Piazza Navona senza i loro palazzi storici?”, domanda ancora Di Thiene, che ricorda anche che “ogni euro investito nelle dimore storiche determina benefici più che doppi per l’economia del territorio dove sorgono”. Secondo il Rapporto, poi, la forza lavoro necessaria per i lavori nelle dimore storiche equivale a “218 mila porti di lavoro a tempo pieno in un anno. Qualcosa non lontano – spiega il professor Luciano Monti – dall’1,2% del mercato del lavoro nazionale.
Quasi la meta delle dimore, 17 mila circa, svolge poi anche attività economica esterna, nel settore agricolo, vitivinicolo e nell’accoglienza, prevalentemente non albergheria” (anche in questo caso, quindi, fuori da eventuali misure di intervento fiscale di quel settore). “Basterebbe davvero poco – incalza Di Thiene – Se si considera che il patrimonio privato costituisce il 2 per mille dell’intero patrimonio immobiliare, è evidente la ridotta incidenza economica di qualsiasi iniziativa in questo settore rispetto al bilancio dello Stato”. “Alcuni dati, come il crollo degli invetsimenti nella manutenzione, sono per noi allarmanti”, commenta Annamaria Barrile, direttrice Relazioni Istituzionali Confagricoltura.
“Le forze politiche devono essere consapevoli che stanno correndo dei rischi”, incalza Giorgio Spaziani Testa, presidente di Confedilizia, che punta il dito contro quanto letto “nella bozza della riforma fiscale” tra “l’annunciata revisione del catasto in senso patrimoniale e l’eccessiva genericità del proposito di ‘riordino’ di deduzioni e detrazioni fiscali”. Quanto ai borghi, aggiunge, “confidiamo nel Pnrr e rilanciamo la proposta di esentare dall’Imu per almeno un triennio gli immobili situati nei piccoli Comuni”. (di Daniela Giammusso per Ansa)