Mia, una storia che fa male. E per questo molto più di un film

La pellicola firmata da Ivano De Matteo colpisce, violenta, apre gli occhi. Un capolavoro all'italiana, come non se ne vedevano da tempo

Un pugno nello stomaco. Che fa male. Un male fisico, prima ancora che mentale. Eppure, necessario. Ci sono film che non si accontentano di scivolare sulla patina, grattano con violenza la superficie per andare prepotentemente all’essenza delle cose. Mia, di Ivano De Matteo, regista metropolitano dall’anima sociale, vuole essere esattamente questo. E lo è. La storia è semplice, drammaticamente. Un’adolescente che si innamora di un ragazzo incapace di amare, uno che concepisce la relazione come un rapporto di potere in cui è lui a dover comandare, ad avere il controllo su tutto. E la tragedia è pronta, in agguato.

Succede ai tempi del revenge porn, del governo dei social, della dittatura degli smartphone. La rete che tutto inghiotte, tutto distrugge, tutto falsa. E alla fine, la finzione diventa realtà. Brutale, violenta, persino assassina. La straordinaria interpretazione di Edoardo Leo, affiancato dal Milena Mancini, moglie di Leo nel film, dell’eccellente comparsa finale Vinicio Marchioni nella vita, sta lì a dimostrarlo. Leo è il padre di Mia, Greta Gasbarri all’esordio assoluto, brava e convincente. Mancini la mamma. Due genitori attenti, premurosi, complici. Una coppia come non se ne vedono più. Eppure non basta. Quando Mia si invaghisce di Marco, interpretato da Riccardo Mandolini, al secolo figlio della ben più nota Nadia Rinaldi, attrice lanciata in quel 1991 da Christian De Sica (sì, Faccione), una strana inquietudine invade la pellicola, trasformando la storia in una lenta ma inesorabile discesa agli inferi.

Il padre di Mia non ci sta, vorrebbe reagire, fare qualcosa, prova ad allontanarla da questo amore, ma senza successo. La madre di lei minimizza, è ottimista, speranzosa, più leggera. Mia intanto ogni giorno va spegnendosi. Si scusa per tutto, si allontana da tutti, smette di truccarsi, di uscire con le amiche, di sorridere. Tutto sepolto sotto il peso di chiamate, messaggi, appostamenti. Nulla sembra poter riportare il sorriso perduto. Nemmeno l’angoscia, tambureggiante, dei genitori, incapaci di comprendere fino in fondo il pericolo. O forse sì. Ed è proprio questo il problema. Quando tutto sembra finito, con Mia che lascia Marco, ecco che si spegne di nuovo la luce.

Le fotografia di una notta di amore, forse più imposto che voluto, trasformata in sesso, la prima volta di Mia, fanno il giro della rete. E le porte dell’inferno si spalancano, ancora una volta. Mia non regge il colpo. Un salto nel vuoto sembra l’ultima possibilità per smettere di soffrire, vergognarsi. Succede. Ma le cose non vanno come, forse, pensava Mia. Che sopravvive, aggrappata alla vita, disperata. Mia è crollata, ma vivrà. Cadrà, invece, il padre. Accecato dalla rabbia, intrisa di dolore, per non aver saputo proteggere la figlia, per non aver impedito che l’orrore si impadronisse delle loro vite, impugna una pistola e fa fuoco contro Marco e il di lui padre. Ma senza mirare.

Tentato omicidio, cinque anni di prigione. E un processo, quello sì, contro Marco e le sue condotti folli e inconsapevoli (o forse sì?), che si farà. Ma come finirà no, questo non si sa. Diciamolo, Mia è un film che raggiunge il suo obiettivo: far riflettere sui salti mortali della genitorialità e sulle complicazioni nel dialogo tra genitori e figli adolescenti. E sulla perversione dei social, sullo stupro della realtà da parte della tecnologia e delle sue deviazioni. Di Matteo ha fatto centro. Un film per interrogarsi, per non abbassare la guardia, per non arrendersi al progresso senza regole, senza morale, senza limiti.

Un film che tutti i ragazzi dovrebbero vedere, insieme ai loro genitori. Da proiettare nelle scuole. No, Mia è molto più di un film.

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