Un’opera senza fronzoli né distrazioni, in cui la musica, il coro e la danza celebrano ed esaltano il dramma eterno della morte e dell’amore: la rivoluzione portata nel melodramma da Christoph Willibald Gluck arriva sul palco del Costanzi con il mito antico di “Orfeo ed Euridice”, in scena dal 15 al 22 marzo, in un nuovo allestimento con la regia di Robert Carsen e la direzione dell’orchestra di Gianluca Capuano.
Non si può dire che il pubblico dell’Opera di Roma non abbia atteso a lungo questo titolo, forse il più importante di Gluck, rappresentato l’ultima volta nel 1968: dopo 51 anni torna dunque sulle scene nell’originale versione di Vienna del 5 ottobre del 1762, in una coproduzione con Théâtre des Champs-Elysées, Château de Versailles Spectacles e Canadian Opera Company. Ad esaltare l’essenzialità di quest’opera settecentesca, nel pieno rispetto delle intenzioni del compositore e del librettista Ranieri de’ Calzabigi, due grandi nomi del teatro internazionale: il regista canadese Robert Carsen (che tornerà a Roma anche a novembre per la messa in scena di “Idomeneo, Re di Creta” di Mozart) e il maestro Gianluca Capuano, entrambi al debutto nel teatro capitolino.
Privo di orpelli musicali e drammaturgici, lo spettacolo (tre brevi atti della durata complessiva di un’ora e mezza) offre dunque l’occasione non frequentissima in Italia (al contrario di quanto accade all’estero) di conoscere un tassello importante del repertorio settecentesco nel quale la riforma pensata e messa in atto da Gluck marca la distanza dal melodramma classico, caratterizzato da grandi arie e scene sontuose, segnandone un nuovo percorso verso la modernità. “L’opera si era persa in scene stravaganti e nell’ego individuale dei cantanti, e Gluck ha voluto riformarla. I temi consueti di eros e thanatos sono trattati in modo essenziale: l’opera si concentra sull’azione drammatica, senza distrarre con costumi e cambi di scena”, ha detto oggi Carsen a Roma, “chi fa il nostro mestiere considera un privilegio poter condividere con il pubblico opere così essenziali come questa: lavoriamo per creare ponti che uniscano gli spettatori al teatro”.
“L’arte è una risposta alla morte”, ha proseguito, “Orfeo è in fondo tutti gli uomini: rappresenta la condizione umana, perché siamo nati per amare e poi perdere qualcuno e anche noi non ci saremo più. Forse non siamo programmati per accettare questa condizione, ma opere come questa possono aiutarci”. “Per noi antichisti è impensabile interpretare una partitura senza una conoscenza profonda del contesto: cerchiamo di ritrovare i mezzi originari per proporre al pubblico non l’autenticità dell’opera ma almeno la verosimiglianza attraverso la prassi esecutiva e l’indagine sugli strumenti dell’epoca”, ha spiegato il maestro Capuano, sottolineando di aver trovato interessante “cimentarsi con orchestre come quella di Roma non abituate a un lavoro del genere. Si tratta di ricostruire un lessico perduto che però non ha una grammatica: non è dato un codice interpretativo a cui attenersi, ogni volta bisogna ricrearlo”.
Nei ruoli principali gli spettatori vedranno tre giovani artisti, il controtenore Carlo Vistoli (Orfeo, un ruolo che nel ‘700 era interpretato dalla voce soave ed acuta dei castrati) e i soprani Mariangela Sicilia (Euridice) ed Emőke Baráth (Amore). Le scene e i costumi sono di Tobias Hoheisel, le luci di Carsen con Peter Van Praet, la direzione del coro di Roberto Gabbiani.