Edoardo Sassi per Il Corriere della Sera Roma
Bello, ricco, alto, elegante, snob, aristocratico e stravagante nei modi e nelle frequentazioni, figlio di uno svizzero tedesco e di un’anglo-americana, cresciuto in quella Firenze cosmopolita d’inizi Novecento assurta, giustamente, al rango di città-mito. Insomma, già solo a scorrere i tratti della sua biografia, tutta all’insegna della extra-ordinarietà, si capisce l’interesse che può destare negli appassionati di XX secolo la figura di Ernesto Michahelles (1893-1959), artista assai più celebre con lo pseudonimo (palindromo) di Thayaht, l’uomo di cui si dice sempre «il futurista che inventò la tuta» (suo, alla fine degli anni Dieci, il brevetto dell’abito tutto d’un pezzo e a forma di T).
Ma Thayaht fu anche molte, tante, tantissime altre cose: fu scultore, pittore, scenografo, illustratore, caricaturista, creatore di moda, grafico, progettista di arredi, gioielli, tessuti, appassionato di esoterismo e via elencando. E c’è almeno una testimonianza di tutti questi Thayaht nella bella mostra dedicata a lui e inaugurata giovedì 8 febbraio nelle sale della Galleria Russo, per la cura di Daniela Fonti. Titolo, «Thayaht, un Futurista eccentrico. Sculture, progetti, memorie» (catalogo Manfredi, mostra in collaborazione con l’Associazione per il patrocinio e la promozione della figura e dell’opera di Ernesto e Ruggero Alfredo Michahelles, fratello di Thayaht e artista anch’egli con lo pseudonimo Ram). Cosa si vede? Tutto-Thayaht-tuta compresa, dalle prime prove di sapore ancora liberty, alle tante sue invenzioni in perfetto stile Art Déco, fino a quei bei disegni dal tratto intimista di ragazzi dormienti, gli stessi che quasi certamente il bell’Ernesto amò di un amore non solo platonico.
Circa duecento i pezzi esposti: arte, oreficeria, moda, compreso il celebre marchio disegnato per Madeleine Vionnet, regina della couture francese nella folle Parigi del tempo: un peplo a forma di «V» sorretto da una figura impostata su una colonna ionica, mirabile sintesi del gusto di una stagione. Di squisita eleganza, il logo è datato 1919, stesso anno del disegno che riproduce la «tuta», ispirata ai concetti di funzionalità/dinamismo di Giacomo Balla & Co. Linee rette, in canapa colorata o cotone grezzo, lo stravagante abito fu concepito come veste universale destinata a tutti, senza distinzioni sociali ma ebbe in primis gran successo negli altolocati ed eccentrici ambienti fiorentini.
Impossibile non citare, in questo centrifugo cammino d’artista, le opere di Thayaht oggi forse più riconoscibili e apprezzate: quelle sculture dalle ardite soluzioni nel trattamento della linea realizzate dalla fine degli anni Venti, quando Ernesto entrò in contatto con il Futurismo esordendo come scultore. La Bautta, il Violinista, la Sentinella, il Flautista, il Tennista, i Pesci o lo scenografico Tuffo, realizzato per la Biennale del 1932: una produzione non estesa ma di grande originalità, che la curatrice colloca ai vertici «della ricerca plastica del Futurismo».