Tanto tuonò che piovve. Era atteso il “no” dalle urne dei lavoratori Alitalia e il risultato è stato confermato. Un esito, però, che mette seriamente a rischio il futuro e perfino l’esistenza dell’ex compagnia di bandiera. Perché gli azionisti hanno già fatto chiaramente capire che senza la sottoscrizione dell’accordo siglato tra azienda e sindacati da parte dei lavoratori, non c’è spazio per un aumento di capitale che pure servirebbe come il pane. Il 2015, primo anno della nuova creatura targa Etihad, si è chiuso con un rosso di 200 milioni di euro, seppur a fronte di un incremento dei ricavi (3,2 miliardi).
Il problema è che la situazione non è mai migliorata e, anzi, si è avvitata in una spirale sempre più drammatica che ha costretto l’azienda a varare, di concerto con i sindacati, l’ennesimo piano da lacrime e sangue: tagli di personale, riduzione degli stipendi, esuberi e prepensionamenti. Il tutto per riuscire una volta per tutte a smaltire quel fardello che venne creato nel 2008, con la cessione a CAI di Colaninno e soci, della sola “good company” di Alitalia, ovvero un gioiellino rimesso interamente a nuovo mentre lo stato si era accollato i debiti ed esuberi. Nonostante un’operazione di makeup degno dei migliori visagisti, l’azienda è andata sempre peggio, senza riuscire ad aprire nuove rotte intercontinentali e venendo continuamente “schiaffeggiata” dalle compagnie low cost.
Ora la situazione rischia davvero di precipitare anche dal punto di vista del lavoro: l’indotto a Fiumicino coinvolge quasi 30.000 persone, tra dipendenti Alitalia, personale di ditte appaltatrici e altri lavoratori che riescono a vivere proprio grazie alla presenza della compagnia aerea nella località vicino a Roma. Si rischia una nuova marginalizzazione di Roma, dopo la fuga di Sky e quelle, annunciate, di Trony e Almaviva. Il tutto mentre le istituzioni esprimono “sconcerto”, “stupore” e similia senza provare a pensare che quanto scaduto può e deve essere ricondotto, in gran parte, alle enormi responsabilità di governi e dirigenti che non hanno saputo far fruttare un autentico fiore all’occhiello del nostro tessuto economico. Un tempo si diceva che i piloti di Alitalia fossero i migliori del mondo.
Incapacità gestionali, continui cambi di management e la sensazione che tanto alla fine tutto si sarebbe risolto si sono scontrate con la dura realtà: la bocciatura tramite referendum del nuovo piano aziendale mette Alitalia con le spalle al muro. Non può più essere acquistata dallo stato italiano e tornare in mani pubbliche perché l’Europa non lo permetterebbe; non può contare su aumenti di capitale da parte di azionisti che non vogliono più mettere denaro fresco in una società che sta marcendo; può al massimo sperare che l’Ue autorizzi un prestito ponte da parte del governo (durata massima sei mesi) durante i quali sarà commissariata e poi ceduta al migliore offerente.
Già, ma chi la vuole Alitalia? Un gigante con piedi di argilla, oltre 11.000 dipendenti che hanno un potere contrattuale enorme; perdite nell’ordine del milione di euro al giorno e una concorrenza sempre più agguerrita da parte delle compagnie low cost ma anche, per quanto riguarda la tratta Milano-Roma, delle ferrovie. E il lancio del nuovo treno ultraveloce, che impiegherà due ore e venti minuti a divorare i 600 km che separano la capitale dal capoluogo lombardo non sono certo una buona notizia per Alitalia. Il presidente Montezemolo per ora tace: era stato il grande burattinaio dell’alleanza con Abu Dhabi, ora rischia di collezionare l’ennesimo insuccesso.