Mentre ancora si parla e si discute sul voto politico del 25 settembre che ha assegnato una netta vittoria alla destra-centro, a Roma e dintorni già si guarda al prossimo appuntamento elettorale, ovvero alla consultazione regionale del Lazio che si terrà nel mese di gennaio 2023 (con possibile proroga ai primi giorni di febbraio).
Il “governatore” Nicola Zingaretti, infatti, si è presentato alle elezioni per la Camera nella lista del Pd ed è stato eletto, quindi si dovrà dimettere da presidente della Regione appena ufficializzata la sua carica di deputato, che dovrebbe avvenire al più tardi a metà ottobre. Di conseguenza, decadrà l’attuale consiglio regionale e si dovrà tornare al voto entro tre mesi per rinnovare presidente ed assemblea della Pisana.
Tre mesi possono essere tanti, ma anche pochi. Per Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi sono sicuramente tanti perché la loro coalizione, al di là di vari distinguo, appare alquanto coesa e se il voto politico del 25 settembre (quasi il 45% nella regione) dovesse essere confermato o, addirittura, aumentasse, la vittoria appare dietro l’angolo. Per le forze di opposizione, invece, tre mesi sono pochi perché, per tentare di battere FdI, Lega e FI, bisogna unire tutte le componenti di questo variegato mondo rosso-giallo ed in questo momento le posizioni sono molto distanti e prevalgono le divisioni.
Il Pd, infatti, dopo la batosta elettorale ed il conseguente annuncio di Enrico Letta di rinunciare a candidarsi per la carica di segretario al prossimo congresso del partito, in questi tre mesi sarà seriamente e duramente impegnato nelle fasi pre-congressuali (il congresso, che avrebbe dovuto tenersi a marzo, probabilmente si svolgerà a gennaio). Difficile, quindi, che in una fase così delicata – con Letta ancora alla guida del partito – si possa dedicare molto tempo al tentativo di ricucire i rapporti con il M5S. Difficile anche perché su questo tema il Pd non appare unitario.
C’è chi pensa di provare subito a riallacciare l’alleanza con i pentastellati, c’è chi invece vuole un accordo con Azione ed Italia Viva. Chi, infine, spinge a tentare un’impresa che appare impossibile, una coalizione con Giuseppe Conte, Carlo Calenda e Matteo Renzi. In pratica, il Partito Democratico, in questo momento, sembra ancora stordito ed indeciso sul da farsi, anche perché scottato sia dai cinquestelle (che hanno provocato anzitempo la caduta del governo Draghi) che dall’ondivago Calenda.
Se questa è la situazione nel Pd, altrettanta incertezza regna nel campo pentastellato. Il voto politico, infatti, con il Movimento che era dato in caduta libera, ha attestato che l’essere rimasti soli ha aperto una prateria elettorale per il M5S negli strati più deboli della popolazione; il che ha permesso a Conte di invertire la tendenza al ribasso e di raggiungere un risultato alquanto lusinghiero. Rimettersi con il Pd – soprattutto con questo Pd ancora a guida Letta -, anche se solo per la Regione Lazio, potrebbe scontentare molti suoi elettori (ricordiamoci che Beppe Grillo definiva il Pd “un PdL senza la elle”). Certo, se al Nazareno rinunciassero ad una propria candidatura per la presidenza a favore del M5S, le cose potrebbero cambiare, ma difficilmente Letta ed i maggiorenti del partito potranno accettare una simile e dolorosa rinuncia.
E poi c’è l’inprevedibile Calenda. Si rimangerebbe il “mai con i cinquestelle”? Come recita un vecchio adagio, “in politica mai dire mai” e la necessità e la voglia di non consegnare alla destra-centro anche il Lazio potrebbe portare le opposizioni a fare un cartello elettorale (nel voto politico per il Senato centrosinistra, M5S e Azione-Italia Viva hanno raccolto insieme più del 53 per cento), ma l’esperienza insegna che quasi mai la coalizione di più partiti raccoglie lo stesso numero di voti, ma di meno. Staremo a vedere.