Nella Tiburtina Valley, dal 2008 ad oggi sono stati persi circa quindicimila posti di lavoro. Ora vi lavorano non più di quattromila persone.
Stefano Lombardi, segretario della Fim Cisl di Roma, fornisce queste cifre per dare l’idea che di una crisi che nasce dalle “scelte sbagliate dell’industrializzazione degli anni ‘90”. “In sostanza – afferma – si è scelto un percorso forzato, si sono messe tante industrie in un territorio che non era in grado di accoglierle, perché non aveva la dotazione infrastrutturale necessaria”.
Sotto tanti aspetti, quello della Tiburtina Valley è un tipico caso della crisi italiana. “In quella zona abbiamo avuto soprattutto società dell’indotto”, dice Lombardi, “dunque piccole aziende che non sono riuscite a trovare un modello di sviluppo alternativo, si sono indebitate e sono andate in sofferenza, senza riuscire a fare massa critica. È normale che così l’occupazione ne abbia risentito”.
La Fim, quindi, parla della necessità di avviare una nuova stagione, quella dell’industria 4.0, che guardi di più al territorio e all’innovazione. La tipologia della produzione sulla Tiburtina si è d’altronde modificata.
“Ora là si fa prima di tutto ricerca, in particolar modo nel settore dei radar e delle tlc”, sottolinea Lombardi. “La costruzione, vedi il caso di Telespazio, si è invece trasferita in Abruzzo”.
Per la Fim Cisl non c’è una ricetta precisa per far ripartire la zona, perché è chiaro che, quando se ne vanno Almaviva e Sky, tutta la città ne risente e dunque anche la Tiburtina. Ora comunque l’emorragia di posti di lavoro sembra essersi fermata, infatti non vi sono molte aziende che al momento fanno ricorso agli ammortizzatori sociali.
Va detto che anche il contesto urbano influisce. “La sicurezza è diventato un problema fondamentale”, dice Lombardi. “Ci sono decine e decine di stabili abbandonati, rifugio di disperati. Dopo l’aggressione, recentemente, nei confronti di una dipendente in un parcheggio, con Uil e Cgil abbiamo deciso l’apertura proprio di un tavolo sulla sicurezza”.