Nel clima sovraeccitato di un dopo elezioni traumatico e di un processo faticoso, con esito inaspettato, di formazione del nuovo Governo, era forse inevitabile che anche eventi che da sempre rientrano nella normalità, come il cambio del vertice alle Ferrovie dello Stato da parte del ministro Danilo Toninelli, divenissero fonte di polemiche e di accuse più o meno strumentali.
Era previsto e risaputo che al nuovo Governo sarebbe spettato il compito di rinnovare i vertici di numerosissimi organismi pubblici e parapubblici; altrettanto risaputo che alle nomine avrebbe proceduto, così come è sempre avvenuto, secondo logiche politiche, pur nel rispetto (anche se questo non è sempre avvenuto in passato) di criteri di efficienza e professionalità. Ancor più logico attendersi un radicale riassetto dei centri di potere da parte di un Governo che si autodefinisce di cambiamento.
Non fa eccezione il caso Ferrovie dello Stato. Così com’é per la RAI.
Le Ferrovie dello Stato svolgono un ruolo all’interno del Paese di grande rilevanza politica: non è un fatto di clientelismo, come forse era una volta, quando costituivano un pozzo senza fondo di assunzioni ed un serbatoio di voti. Dalle Ferrovie dello Stato dipende la garanzia per i cittadini del loro costituzionale diritto alla mobilità, che é assicurato da quello che viene chiamato “servizio universale”, quello, cioè, che deve assicurare spostamenti a corretti livelli di servizio, anche sulle tratte meno redditizie o passive.
Quando il nuovo ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Danilo Toninelli, afferma di volere che le ferrovie dedichino maggiore attenzione al pendolarismo, dà un indirizzo politico che l’azienda, in quanto pubblica, deve seguire. E per questo desidera che i suoi vertici siano in sintonia con questo indirizzo. Se ritiene che quelli attuali non lo siano, ha il diritto di cambiarli, se la normativa lo prevede. A maggior ragione ha diritto di farlo, parlando del caso specifico, quando ritiene che, per ragioni etiche, non possa restare alla guida di un’azienda pubblica chi è sottoposto ad indagine giudiziaria.
Il metodo meno traumatico, adoperato spesso in passato nelle aziende pubbliche (ma normalmente usato anche in quelle private, ad esempio, quando cambi l’assetto azionario) è quello di far dimettere l’intero consiglio di Amministrazione. Nel caso specifico non è stato possibile ricorrere a questo sistema, perché alcuni consiglieri – evidentemente fedeli al precedente Governo che li aveva nominati – si rifiutavano di dimettersi. Una prova per Toninelli – se mai ve ne fosse stato bisogno – che nel vertice ferroviario non avrebbe trovato collaborazione, ma solo ostacoli.
Si è dovuto così fare ricorso alla legge Frattini, sul cosiddetto spoils system, che prevede la possibilità per il Governo entrante, di annullare le nomine fatte dal precedente negli ultimi sei mesi della sua gestione. Una norma a suo tempo approvata, per evitare che un Governo in limine mortis occupasse tutte le caselle disponibili per conservare ingiustificate aree di influenza.
C’è però un’altra questione, oltre a quella dei pendolari, che spingeva verso un radicale cambio di gestione: il trasferimento dell’ANAS, l’azienda pubblica delle strade, alle Ferrovie dello Stato.
Si tratta di un’operazione conclusa alla fine dello scorso anno, fortemente voluta dal Governo Gentiloni e spinta dall’allora amministratore delegato FS, Renato Mazzoncini che, grazie a quell’operazione, ottenne la conferma nell’incarico che gli viene ora tolto.
Il ministro Toninelli definisce il passaggio dell’ANAS alle Ferrovie, “una fusione certamente sbagliata, perché è stata fatta senza sapere il perché”. Ed in effetti il matrimonio tra ferrovie ed ANAS è avvenuto in un clima di acquiescenza inusuale in un contesto politico ed informativo solitamente in continua ebollizione. C’è stata qualche voce dissonante, ma opinione pubblica e stampa non ne hanno quasi parlato, se non in termini puramente descrittivi. Nessuno ha mai chiaramente spiegato i motivi della fusione, i benefici ed i rischi che essa avrebbe comportato.
Si è parlato di possibili quotazioni in borsa, subito smentite; di benefici per il bilancio pubblico; di alleggerimento del peso debitorio dello Stato, grazie al trasferimento dell’esposizione ANAS alle FS. Sul piano operativo, si è accennato ad ipotetiche migliori prospettive sul mercato estero, dove si poteva affacciare un colosso delle costruzioni pronto a partecipare a grandi gare internazionali.
In realtà l’unica ragione vera per cui si è pensato di dar vita alla fusione è di carattere finanziario: il passaggio dell’ANAS alle Ferrovie consentirebbe di fare uscire l’azienda delle strade dal perimetro pubblico, indebitandosi per gli investimenti senza incidere sui limiti imposti dalla UE.
Ma si tratta di un vantaggio ipotetico: secondo le norme UE, per essere considerata fuori dal perimetro pubblico, un’impresa deve vendere servizi a privati per almeno il 50 per cento, ciò che per l’ANAS rischia di restare una chimera.
Per le Ferrovie, al di là delle suggestioni della grandeur, resta, per il momento, il fatto di aver incorporato un’azienda accreditata di due miliardi 800 milioni di patrimonio ufficiale (a tanto ammonta contabilmente l’aumento di capitale costituito dal conferimento della partecipazione ANAS detenuta dal Ministero dell’Economia), ma con un patrimonio effettivo valutabile – secondo gli analisti – tra i 600 e gli 800 milioni, alla luce di un contenzioso con aziende e fornitori per nove miliardi.
Il prossimo AD, insomma, avrà il suo da fare.