Zingaretti: tranquillo in Regione ora pensa al Pd

Con il ritiro di Minniti la segreteria diventa una meta faticosa, ma possibile

Il voto negativo dei giorni scorsi sulla mozione di sfiducia presentata alla Pisana da 12 consiglieri dell’opposizione a Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio, era scontato. Nessuno, tranne qualche irriducibile, desiderava tornare al voto a meno di un anno dal proprio insediamento nel Consiglio regionale. Si può ben dire, quindi, che e’ stata più che altro una sceneggiata a beneficio dei propri elettori quella recitata sul documento che sfiduciava il “governatore”. Le opposizioni – centrodestra e M5S – sapevano infatti benissimo che, pur contando in base ai risultati elettorali di 26 consiglieri su 51, dopo la comparsa in seno all’assemblea (e al centrodestra) di qualche “responsabile” (ovvero di chi vuole garantire la vita a questa legislatura regionale) non avevano i numeri per poter far approvare la mozione di sfiducia. Nel contempo, i grillini guidati da Roberta Lombardi avevano manifestato più volte la loro contrarietà all’iniziativa preferendo “giudicare” Zingaretti sul suo operato alla guida della Regione ed hanno deciso di votare sì sulla mozione dopo che era diventato ben chiaro che la stessa non avrebbe avuto i consensi necessari per essere approvata.

All’assalto di Zingaretti, quindi, era partita una vera e propria “Armata Brancaleone” la quale sapeva che sarebbe stata sbaragliata. E così è stato.  Ora il “governatore” può dormire, almeno per molti mesi, sonni tranquilli sul fronte della Pisana. Il voto sulla sfiducia gli ha dimostrato infatti che le opposizioni non solo si sono indebolite con la defezione di Laura Cartaginese (FI), che ha dichiarato di “non sentirsi più rappresentata dal capogruppo Antonello Aurigemma”, ma anche per le divisioni interne sulle strategie del centrodestra e sulla incomunicabilità tra lo stesso ed i pentastellati.

Zingaretti, chiuso il fronte della Regione, può quindi dedicarsi da qui alle primarie del Pd alla battaglia per la conquista della segreteria nazionale del suo partito. Fino a qualche ora fa si annunciava uno scontro durissimo perché i suoi principali concorrenti rispondevano al nome di Marco Minniti, ex ministro dell’Interno, e Maurizio Martina, che ha guidato il Partito Democratico nel dopo-Renzi. In base ai sondaggi finora eseguiti, tutti e tre si attestevano intorno al 30% dei consensi, una soglia troppo bassa per poter sperare in questi pochi mesi che ci separano dal voto delle primarie di poter raggiungere la quota del 50%+1 fissata dal regolamento per essere eletti dai gazebo. Poi il colpo di scena. Minniti, che non si e’ sentito troppo appoggiato da Matteo Renzi, che pure tramite i suoi uomini piu’ fidati aveva spinto per la sua candidatura per ostacolare la corsa, che sembrava inarrestabile, di Zingaretti verso la leadership del Pd, si e’ ritirato motivando la sua rinuncia con la necessita’ che il nuovo segretario esca eletto dai gazebo ed in modo piu’ unitario possibile.

Con il ritiro di Minniti la partita di Zingaretti appare ora piu’ facile dovendo vedersela solo con Martina che ha pero’ il vantaggio di essere piu’ conosciuto nell’ambito nazionale del Pd del suo rivale visto anche il ruolo che ha rivestito sia al governo che nel partito. Il presidente della Regione Lazio dovra’  quindi girare per l’Italia e bussare a tutte le porte dei circoli Pd per trovare quei consensi che gli possano permettere – se non di vincere nelle primarie superando quota 50 per cento – almeno di presentarsi all’assemblea nettamente in  testa nei consensi così da rendere più difficile, se non impossibile, tagliarlo fuori dai giochi per la segreteria del partito. Un’impresa difficile, ma non impossibile.

 

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