Fabrizio Peronaci per Il Corriere della Sera Roma
La tregua è durata due settimane. Erano stati gli assessori all’Ambiente, Pinuccia Montanari, e alle Partecipate, Massimo Colomban, a incalzare l’amministratrice unica di Ama. Erano volate parole grosse e l’avvocatessa Antonella Giglio, che puntava su un altro nome, era giunta a minacciare le dimissioni. Poi le pressioni dal Campidoglio avevano avuto la meglio: Stefano Bina, il manager lombardo vicino alla Casaleggio associati, il 31 gennaio era stato confermato direttore generale (per tre anni). Sembrava tutto risolto, finalmente. Nell’Ama degli scandali era giunto il momento di pensare alla città. Niente da fare, i vertici hanno già ripreso a litigare: stavolta per una questione di stipendi e di rimborsi a pie’ di lista.
È proprio attorno alla retribuzione del dg che, nelle ultime ore, si è creato un casus belli difficile da disinnescare. L’ingegner Bina, di fronte alla prospettiva di restare nella capitale almeno fino a tutto il 2019, avrebbe chiesto un aumento consistente rispetto a quanto pattuito nel contratto firmato lo scorso agosto. Si parla di 160-170 mila euro di reddito lordo, ai quali aggiungere 40 mila euro l’anno di premio di risultato e la copertura integrale delle spese di trasferta: da quelle per l’affitto di un appartamento al rimborso dei pasti al ristorante. A conti fatti, si finirebbe attorno ai 240 mila euro (o poco meno), cifra considerata troppo alta dall’Au.
Il braccio di ferro va avanti da giorni e ha di fatto bloccato l’avvio della nuova fase in Ama. Rinviate sia le decisioni sulla macrostruttura (che in parte sconfesseranno le scelte fatte dall’assessora Paola Muraro a dicembre, un momento prima di dimettersi) sia sulle future politiche industriali in materia di trattamento rifiuti e di apertura di nuovi impianti. La questione stipendi, d’altronde, in via Calderon de la Barca tocca nervi scoperti. I rischi di levate di scudi da parte degli esclusi dai trattamenti di favore sono alti.
Anche perché, negli ultimi due-tre anni, le condotte di vertice non sempre sono state lineari. A fronte del sacrificio chiesto ai dirigenti nel 2014 (dopo la tempesta di Parentopoli) con l’accordo che sancì la riduzione degli stipendi del 5 e del 10% (se superiori ai 100 o 150 mila euro), la linea dell’austerità non è stata rigorosa quanto sarebbe stato logico attendersi. Il congelamento delle buste paga è andato incontro ad eccezioni sia nella fascia dirigenziale, con due o tre aumenti nell’ordine dei 30-40 mila euro, sia tra il personale amministrativo, con alcune gratifiche inattese, a partire dal passaggio di ben tre livelli (dal 4° al 7°) di un impiegato fortunato, che ha provocato molto malcontento.