È partita stanotte, raccogliendo subito 100 donazioni (a metà pomeriggio sono già stati superati i 15mila euro) la campagna di raccolta fondi per sostenere la Fondazione Tetrabondi (clicca qui se vuoi contribuire) che darà supporto e assistenza psicologica, ma non solo, alle persone con disabilità e ai genitori “caregiver”.
Tetrabondi nasce come profilo Twitter (@tetrabondi) per raccontare la vita di Sirio, bambino di 7 anni che vive a Roma, affetto da tetraparesi spastica e da paralisi celebrale. A dargli voce è la madre, Valentina Perniciaro, 38enne romana che tweet dopo tweet porta avanti un enorme lavoro di comunicazione per restituire al racconto sulla disabilità parole sincere e schiette, lontane da qualsiasi forma di pietismo.
Un eloquente – e solo apparentemente politicamente scorretto – #inculoallostatovegetativo è l’hashtag-slogan che chiude i suoi post. E non è un una scelta casuale, così come non lo è il nome Teatrabondi, che unisce al concetto di tetraparesi quello di vagabondare. Sono parole che raccontano un percorso lungo, fatto di lotte e sacrifici, che ha permesso a Sirio di ribaltare (almeno in parte) la diagnosi inappellabile di stato vegetativo arrivata a 10 mesi di vita, quando, quasi nell’incredulità di chi lo assisteva, a 5 anni ha iniziato a camminare, con l’ausilio di tutori.
Abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Valentina Perniciaro per parlare della nuova Fondazione e di cosa significhi per una famiglia quando una disabilità grave irrompe all’improvviso nella propria vita.
Buongiorno Valentina, perché una Fondazione?
“Puntiamo in alto. Vogliamo tutelare le famiglie. Offrire supporto legale e psicologico gratuiti. Ma per poterlo fare ci servono soldi, fondi, e donatori. È un salto un po’ imprenditoriale, forte, ma una semplice associazione, a differenza della Fondazione, non ci permetterebbe di lavorare con grandi partner”.
Quali partner?
“Parlo di ministeri, lo Stato, Ferrovie, Poste. Tutte quelle strutture che offrono servizi legati all’invalidità – vedi ad esempio le poste con le pensione d’invalidità – non hanno servizi pensati per chi ha un invalidità. Non esistono sportelli in Braille o dove si parli il linguaggio dei segni. Io lavoro alle Poste da 18 anni e ho tantissimi colleghi con disabilità che vengono demansionati. Alle aziende fa comodo assumere per gli sgravi fiscale ma non c’è un vero processo di valorizzazione. Quando invece bisognerebbe capire che ogni grande disabilità dà anche delle grandi abilità: ogni cieco, sordo, solo con la sua forza ha dovuto costruirsi delle abilità per poter stare al mondo”.
Raccontato così appare un progetto enorme.
“Per mettere su una Fondazione servono 100mila euro di fondo. Ci tengo a precisarlo, la Fondazione è un ente di terzo settore e non a scopo di lucro, quindi i soldi raccolti andranno totalmente nei progetti o, se il progetto fallisse, saranno girati a strutture che hanno uno stesso scopo. Con il crowdfunding contiamo di raccoglierne 75mila euro. Siamo partiti da 70mila ma poi, nel pieno della notte, ho deciso di aprire la raccolta e l’ho annunciato con un post su Twitter: subito sono arrivate 100 donazioni, allora (ride) ho alzato l’obiettivo”.
Raggiunto l’obiettivo delle risorse, da dove partirà la Fondazione?
“Gli ambiti di attività saranno tre: formazione, promozione e consulenza. Abbiamo già iniziato a collaborare con una grossa società di formazione per l’ideazione dei corsi. Pensando in grande da qui a 5 anni vorremmo poter offrire un servizio completo a chi è affetto da paralisi neuronali. E tra 10 arrivare a offrire un percorso sullo sport. L’obiettivo finale è diventare autonomi. Ma ci occuperemo anche di formazione lavorativa, per la costruzione di autonomia. Vogliamo che queste persone non siano “infantilizzate” a vita, serve aprire un percorso di “adultizzazione”- sembra strano ma questa parola esiste – della persona con grave disabilità. Va costruita una società che costituisca autonomia. Faccio un esempio, Sirio ha tanti amici che da 6 anni passano la vita a guardare un soffitto, senza poter comunicare. Cosa che magari potrebbero fare attraverso un puntatore oculare. Magari così potrebbero dirci che non vogliono essere toccati, che cosa gli piace. Per questo insisto nel dire che non sono bambini speciali, ma bambini con bisogni speciali.
Cosa vi renderebbe diversi dalle altre realtà che già esistono e si occupano di disabilità?
“Esistono tantissimi strutture nel terzo settore che lavorano molto bene. Il dramma è che sono molto specifiche mentre a noi interessa creare un luogo dove fare rete, insieme a tutte le realtà interessanti che esistono. All’inizio abbiamo pensato di occuparci solo di tetraparesi infantile, ma saremmo stati gli ennesimi, e noi invece vogliamo fare un grande “piazza” dove le strutture possono lavorare insieme”.
Volete fare la rivoluzione sul fronte dell’assistenza alla disabilità?
“Noi puntiamo a cambiarla questa società. La nostra parola d’ordine è che la disabilità è una peculiarità dell’essere umano, come tante altre vulnerabilità che portano a un abbandono totale da parte della società”.
Se pensa a una sola parola per definire la condizione dei “caregiver” familiari, cosa le viene in mente?
“Abbandono. I “caregiver” non esistono, sono fantasmi. Perdono il lavoro, il sonno, il riposo. L’idea che c’è stato quel giorno che ti è cambiata la vita e non tornerai mai più a una leggerezza di esistenza”.
Cosa li aiuta?
“L’assistenza domiciliare. Sirio può andare a scuola perché ha un’infermiera che sta lì con lui. Se non hai l’infermiera, è la mamma che sta fuori in macchina nel caso ci sia bisogno di qualcuno per aspirare la tracheostomia (che è una condizione di emergenza, non si può prevedere quando ci sarà bisogno di farlo). Ma le nostre sono comunque vite che si reggono su equilibri precari. Posso restare improvvisamente senza assistenza infermieristica, come successo il mese scorso quando l’infermiera se n’è andata e ancora non abbiamo una sostituta fissa. Oppure ricevere un messaggio alle 6 del mattino che mi dice che l’infermiera non può venire perché si è ammalata, e quindi devo assentarmi da lavoro, e Sirio non può andare a scuola. Insomma, è tosta.”
Come si fa a reggere?
“Facciamo la guerra. La nostra battaglia per l’assistenza domiciliare ci ha fatto ottenere 10 ore di assistenza infermieristica. Le famiglie vanno sostenute in casa, solo in questo modo possiamo sopravvivere. Io non sarei potuta tornare a lavorare. Io sono orfana, a noi non ci aiuta nessuno, è lo Stato che deve farlo. Ottenerle è stata una guerra incredibile, senza la tracheostomia Sirio non avrebbe avuto diritto neppure a un’ora. C’è chi ci dice “beato te che hai la tracheo”, capisci la situazione”?
Nella maggioranza dei casi ad assistere un familiare o un congiunto bisognoso di cure sono le donne. Partendo dalla sua esperienza, ci racconta come si cambia questa prospettiva?
Nel mio caso il vero “caregiver” è il papa, lui ha rinunciato a tutti per assistere e farmi continuare a lavorare. Ma qui il problema non è la disabilità, è la società che va cambiata, la disabilità non è altro che lo specchio della normale relazione di genere. Che si cambia abbattendo il patriarcato (ride).
Anche tra il personale infermieristico finora abbiamo incontrato solo due uomini. E questo anche perché molte famiglie rifiutano l’infermiere uomo, soprattutto se la paziente è donna. Siamo noi famiglie spesso a portare avanti il medioevo. E sicuramente noi donne la paghiamo più cara.
La pandemia come ha impattato sulla vita di Sirio?
“Dramma a scuola, se pure noi (nel Lazio ndr) diventiamo “zona rossa”, ci svegliamo senza scuola e in DAD. Per Sirio le sei ore a scuola sono le più belle della giornate. Non ci sono altri bambini con bisogni speciali nella nostra scuola quindi anche se potesse accoglierlo non lo manderemmo da solo. Speriamo che le scuole reggano. Il Covid poi ha portato un cataclisma su Roma, facendo scappare gli infermieri dall’assistenza domiciliare verso le liste di assunzioni sempre aperte degli ospedali, come ad esempio il Sant’Andrea, che offrono contratti migliori di quelli delle cooperative che gestiscono l’assistenza”.
Qual è il ricordo finora più emozionante legato alla disabilità di suo figlio?
Il suo primo “no”! È stata la rivoluzione. Voleva dire che aveva capito la nostra domanda e come rispondere. Capivamo che c’era, che era intelligente, ma che sapesse rispondere a un sì o a un no…
Come è successo?
Grazie a una logopedista un po’ pazza che ha provato, nonostante mancassero i prerequisiti. Gli ha messo un elastico verde (per il sì) e uno rosso (per il no) ai polsi e gli ha insegnato a indicare. Per questo servono équipe forti, se nessuno glieli avesse messi ai polsi quelli sarebbero rimasti solo due elastici per i capelli.