Il risultato delle elezioni regionali in Basilicata da’ chiari segnali sull’evolversi della situazione politica italiana. Non per l’ampiezza del corpo elettorale (poco più di mezzo milione gli iscritti alle liste elettorali e di questi ha votato il 53,58% degli aventi diritto), ma perché viene dopo altre consultazioni, svoltesi dopo le politiche del 4 marzo dello scorso anno, dalle quali è emerso un indirizzo univoco: dalle elezioni regionali dell’aprile 2018 del Molise e del Friuli-Venezia Giulia, dall’Abruzzo alla Sardegna ed ora della Basilicata di questo inizio 2019, il responso è che avanza il centrodestra a trazione leghista, arretra il Pd (che ha perso il controllo di queste cinque regioni); tracolla il M5S che dimezza ovunque i voti ottenuti appena un anno fa.
E proprio sul crollo dei pentastellati che vogliamo accentrare la nostra attenzione. Le elezioni amministrative non sono certo il terreno ideale per le contese elettorali dei cinquestelle. Il fatto di lottare da soli, senza liste apparentate, costituisce senza dubbio un handicap notevole, ma non basta a giustificare le sonore sconfitte registrate dopo le politiche, altrimenti non si spiegherebbero le vittorie incassate nelle comunali di Roma, Torino, Livorno ed altri importanti centri (nel Lazio Civitavecchia, Guidonia ed altre amministrazioni locali).
Il problema reale è che il M5S è stato scelto da molti elettori sia nelle elezioni politiche del 2013 (oltre il 24%) che del 2018 (oltre il 32%) perché agli occhi di tantissimi italiani rappresentava un movimento di protesta contro il sistema, imperniato sul bipolarismo centrosinistra-centrodestra, che non ha saputo affrontare e risolvere la grave crisi economica iniziata nel 2008 e che ancora esplica i suoi effetti su larga parte della popolazione.
Beppe Grillo aveva saputo cogliere gli umori dei cittadini e con i suoi “Vaffa…day”, complice anche l’inazione dei partiti e la loro sottovalutazione del malumore che serpeggiava nella popolazione, ha prima portato il Movimento a significative affermazioni in sede locale e regionale e poi in Parlamento 6 anni fa, per concludere la “lunga marcia” con la clamorosa vittoria dell 2018 e alla nascita del governo giallo-verde (anche se il fondatore dei cinquestelle aveva abdicato qualche mese prima alla sua funzione di “guida” per quella di consigliere e fiancheggiatore di Luigi Di Maio).
Ma passare “dalla protesta alla proposta” (usiamo un termine almirantiano) non è facile. In questi mesi di governo, al di là del reddito di cittadinanza e di “quota 100”, quest’ultima rivendicata soprattutto dalla Lega di Matteo Salvini, la politica del M5S è stata più quella dei no (alla Tav il caso più eclatante) che delle iniziative. Nel frattempo il Carroccio si è intestato la lotta all’emigrazione clandestina (problema molto sentito dalla popolazione e sottovalutato dal centrosinistra) e appare sempre più la vera forza propulsiva dell’esecutivo Conte.
Se a questo aggiungiamo anche le “disavventure” romane della giunta di Virginia Raggi (dagli arresti e incriminazioni eccellenti al malfunzionamento della macchina amministrativa in materia di traffico, strade, raccolta dei rifiuti, stazioni della metropolitana chiuse, ecc.) ed anche i guai torinesi di Chiara Appendino), è quasi normale che tanti elettori grillini, ritenendolo non idoneo a governare, abbiano abbandonato il Movimento scegliendo la Lega o l’astensione.
Dunque, per i cinquestelle è un momento difficile. Se non dimostreranno che sono in grado di formulare proposte, saranno dolori. E alle elezioni europee del prossimo 26 maggio mancano solo due mesi.