“Arrivano di notte, aprono il cofano dell’auto parcheggiata accanto al nasone e poi procedono con l’estrazione. Il metodo, purtroppo, è ormai consolidato. Così tanto che ormai il furto della fontanella storica è diventata per il uno degli affari illeciti più sicuri e redditizi: zero vigilanza e pure scarsa sensibilità del cittadino che, con la città in degrado progressivo, ha gioco-forza abbassato la sua soglia d’attenzione; e, sul mercato nero, sono garantiti guadagni d’oro, anche se si tratta di ghisa. Un quintale, per la precisione”. A parlarne é il Corriere della Sera che sottolinea, in un articolo di Andrea Arzilli, come il furto della fontanella sia diventato un vero e proprio affare per la criminalità.
“Ogni anno di nasoni ne vengono rubati circa trecento, a tanto ammonta l’ordine annuale di Acea alla Fonderia Romana, la fabbrica storica che da tre generazioni rifornisce la città di uno dei suoi simboli più amati, più utili e, adesso sappiamo, pure più appetiti. Ma i 300 furti rappresentano solo una media che negli ultimi dodici mesi ha fatto registrare un consistente ritocco verso l’alto: le fontanelle estirpate da strade e marciapiedi sono arrivate a quota 500. Ovvero circa 350 mila euro di ordine che Acea è costretta a fare per suturare le ferite lasciate dai ladri sulle strade della Capitale. E le cicatrici potrebbero drammaticamente aumentare ancora: i nasoni su suolo romano sono circa 2.200, ovvero un patrimonio di circa 1,5 milioni di euro a rischio furto facile”.
La pesante refurtiva “viene prima stoccata in magazzini fuori città – un paio sono stati avvistati nei seminterrati delle case popolari di Ostia – e poi smistata a seconda delle richieste: una parte dei nasoni viene fusa per tornare materia prima ed essere venduta a 30 cent al chilo; l’altra porzione viene piazzata così com’è stata estratta dal suolo pubblico, del resto ci sono appassionati disposti a pagare centinaia di euro per avere una fontanella storica personale, in giardino piuttosto che nell’androne del palazzo. La domanda c’è eccome, insomma”.