Totò Riina è morto alle 3:37 del mattino di oggi presso il reparto per detenuti della clinica universitaria di Parma, dove era ospitato da quasi due anni per il progressivo peggioramento delle sue condizioni di salute. Nelle scorse settimane era stato operato due volte e dopo l’ultimo intervento era entrato in coma.
Riina aveva compiuto ieri 87 anni ed era sottoposto a detenzione da 24, in seguito alle condanne a diversi ergastoli, ben 26, per omicidi e stragi mafiose, compresa quella in cui furono uccisi il giudice Giovanni Falcole, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della loro scorta nel 1992. Riina era stato arrestato nel 1993 dopo una lunga latitanza. Negli ultimi anni aveva iniziato a soffrire di gravi problemi cardiaci, renali e di parkinsonismo vascolare.
Le condizioni di salute di Riina erano tornate di attualità lo scorso giugno, quando la Corte di Cassazione aveva emesso una sentenza con la quale aveva annullato con rinvio un’ordinanza del tribunale di sorveglianza di Bologna (dal 2013 Riina era detenuto a Parma) che aveva negato la richiesta dell’avvocato di Riina per la sospensione della pena, o almeno gli arresti domiciliari, considerate le precarie condizioni di salute del suo cliente. La nuova vicenda giudiziaria aveva portato a numerose polemiche, politiche e non solo, sull’opportunità di cambiare il regime carcerario per Riina e più in generale sulle condizioni dei detenuti sottoposti al 41 bis, il cosiddetto “carcere duro”.
A partire da metà degli anni Novanta, Riina cambiò diverse volte carcere: prima fu detenuto all’Asinara, in Sardegna, poi ad Ascoli Piceno e infine a Parma. Come la maggior parte dei boss mafiosi, era sottoposto al 41 bis, che nei casi più gravi prevede che il condannato non interagisca con gli altri detenuti durante le cosiddette “ore d’aria”, e che abbia un numero molto limitato di telefonate e incontri con i familiari e gli avvocati, uno o due al mese. Il 41 bis per Riina fu in parte modificato nel 2011, quando era in carcere ad Ascoli Piceno, con permessi per vedere alcuni detenuti selezionati durante il giorno. Le cose cambiarono ulteriormente una volta trasferito a Parma, quando si rese necessario il suo ricovero in ospedale per i problemi di salute, dopo che a lungo varie sentenze avevano stabilito che dovesse rimanere in prigione.
Riina non si è mai pentito. Solo tre anni fa, dal carcere parlando con un co-detenuto, si vantava dell’omicidio di Falcone e continuava a minacciare di morte i magistrati, come il pm Nino Di Matteo. Per decenni, dalla latitanza ha gestito con Bernardo Provenzano – già deceduto – la mafia siciliana e continuava a essere un punto di riferimento. “Io non mi pento… non mi piegheranno. Non voglio chiedere niente a nessuno. Mi posso fare anche 3000 anni, non 30”, aveva detto il capo di Cosa nostra alla moglie in un colloquio video-registrato nel carcere di Parma dello scorso 27 febbraio.
Proprio per questo motivo nel luglio scorso il tribunale di Sorveglianza di Bologna aveva rifiutato la richiesta di detenzione domiciliare presentata dai legali del boss per ragioni di salute. Nonostante l’età e le sue condizioni di salute, per i giudici era ancora il Capo, ancora lucido ed “in grado di intervenire nelle logiche di Cosa Nostra” e peraltro curato nel migliore dei modi nell’ospedale emiliano.
Il boss era ancora imputato in un processo, l’ultimo a suo carico, quello sulla presunta trattativa Stato-Mafia.