Giovani superconnessi… ma scollegati dal prossimo

I nostri figli non sanno più fare neppure le capriole ma per l'esperto il problema non è nelle tecnologie

Quando eravamo bambini, passavamo tutto il nostro tempo a giocare in strada, a correre dietro a un pallone oppure a saltare a corda. Oggi, i nostri figli, inseguono il mondo comodamente seduti, con la testa china sul proprio cellulare. Il cambiamento è epocale. Radicale. Stravolgente. Ed è solamente l’inizio.

I nostri figli non sanno più fare neppure le capriole. Lo testimonia più di un professore di ginnastica. Due ragazzi su tre, affermano, non sanno effettuare una capovolta in avanti. Cadono su un fianco, si contorco, sono scomposti. Non hanno il senso dell’equilibro e sono “legati”. Hanno un minore sviluppo nella muscolatura delle braccia e delle gambe perché non si arrampicano più sugli alberi, non corrono, non saltano.

Uno studio dell’Istituto regionale ricerca educativa del Lazio traccia un quadro allarmante. Mario Bellucci, tra gli autori della ricerca, afferma che “abbiamo degli adolescenti con il fisico da anziani e si presuppone che, continuando in questa direzione, nel 2020 bambini e adolescenti italiani raggiungeranno il grado zero delle capacità motorie”. Ma non solo. I nostri giovani superconnessi sono scollegati dal prossimo e non sanno più comunicare. Quante volte li abbiamo visti, anche in gruppo, più interessati nel guardare lo schermo del proprio smartphone, piuttosto che guardarsi negli occhi? Sinceramente troppe.

Ma di chi è la colpa? Della società? Dei mass media? E, in fondo, chi è la società se non noi stessi?

Lo psicoterapeuta Domenico Barrilà, autore del libro “I superconnessi, come la tecnologia influenza le menti dei nostri ragazzi e il nostro rapporto con loro” (URRA Feltrinelli), è fermamente convinto che il problema parta dagli adulti, gli stessi che, pur lamentando l’uso eccessivo di smartphone e web dei propri figli, mostrano di non avere controllo sul loro rapporto con i dispositivi digitali.

Dare la colpa alle nuove tecnologie digitali, ai social e alle chat è solo un modo per distogliere l’attenzione dalla necessità di educare i giovani, col rischio di precipitare in un pericoloso vuoto educativo, se non si insegna loro a connettersi veramente con il prossimo, riconoscendolo e rispettandolo.

“I figli imparano dai nostri comportamenti, non dalle parole, è impossibile portarli dove noi stessi non sappiamo arrivare – spiega Barrilà – dunque un genitore che utilizzi in modo immaturo gli strumenti digitali perde autorevolezza e lede le sue chance di correggere i figli”.

“I giovani nell’ansia di voler essere costantemente ‘connessi’, trasferiscono il bisogno di “legami” – continua l’esperto. Quindi più che mettere sotto accusa le nuove tecnologie, dovremmo preoccuparci di munire i figli di solidi sentimenti comunitari”.

“La Rete – precisa – è un caso particolare di vita sociale, che rivela perfettamente, magari esasperandoli, gli orientamenti profondi dei nostri figli. Dice chi siamo veramente. Sui social i ragazzi veicolano l’immagine che si sono fatti di sé, drammatizzano, come in una recita, ciò che credono di essere”. Tuttavia in Rete si agisce senza investire il proprio volto, la propria corporeità, dunque in modo molto più disinibito, col rischio di smettere di rispettare la sensibilità e lo spazio altrui. Ma non serve “disconnettere” i figli dal mondo digitale, piuttosto, conclude, è ora di riappropriarsi della nostra responsabilità educativa favorendo in loro lo sviluppo dello spirito cooperativo per salvarli dagli eccessi.

In effetti i cellulari “chiamano” in causa prima di tutto noi adulti.
Il mese scorso un’insegnante americana affida un compito in classe ai suoi alunni: “Descrivete un’invenzione che non vi piace”. Ebbene, molto di loro hanno risposto: “Non ci piace il telefonino sempre acceso di mamma e papà”. I primi ad essere superconnessi, infatti, siamo proprio noi.

Basta osservare le dinamiche, domestiche, di qualsiasi famiglia per comprenderlo amaramente: i figli sono solitari in camera, connessi a un video gioco o al telefonino mentre,  i loro padri e le loro madri, in un’altra stanza, sono spesso collegati su Facebook, Twitter o Whatsapp. Ma perché accade? Perché ci estraniamo tutti?

I motivi sono molteplici. Due su tutti:
Primo: spesso rappresenta un’evasione, un’occasione per distrarsi e per rilassarsi, vista la vita stressante che si conduce. E, farlo, è assolutamente comprensibile.

Secondo: i social hanno compreso un’effimera esigenza: dà a tutti quei famosi 15 minuti di notorietà della quale, gli individui, si nutrono con una spasmodica necessità. Le piattaforme web sfruttano, a ciclo continuo e in modo inarrestabile, un bisogno di protagonismo, tipico della nostra epoca.
E così, ognuno di noi, nella propria bacheca facebookiana, si illude d’essere, sempre, un indiscusso protagonista.  Assetati da questo “desiderio”, pubblichiamo fotografie, video e improponibili  dirette.

Comunichiamo disperatamente noi stessi al mondo senza pensare che, al mondo, tutto questo non interessa. Senza pensare che, forse, l’unico luogo dove dovremmo essere gli indiscussi protagonisti è a casa nostra.
Come mariti o come mogli. Come padri o come madri. Perché è lì che si svolge la parte più importante della nostra vita.

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