Claudia ha 12 anni. Vive a Roma ma è di origini siciliane. Ferma, davanti alla teca che custodisce i resti della Croma blindata su cui viaggiavano gli uomini della scorta del giudice Giovanni Falcone, ha lo sguardo attonito. Atterrito. I suoi genitori le hanno sempre raccontato la storia della strage di Capaci ma vedere quei resti, a pochi centimetri da lei, fa tutto un altro effetto. “Mamma ma è una cosa sconvolgente”, sussurra sottovoce .
“Ma come si può fare una cosa così orribile? L’auto è disintegrata. Dove sono finiti quei poveri uomini?”. Accanto a lei, intorno al cubo di vetro che ospita la QS15 (nome in codice dell’auto), ci saranno altre cinquanta persone. Ci sono anche molti bambini.
Tutti in un atteggiamento di assoluto silenzio, rispetto e compostezza.
Qualcuno di loro scatta una fotografia, altri commentano sottovoce l’atrocità di quanto stanno osservando. C’è anche chi si fa il segno della croce.
Sono le 17,00 di un pomeriggio romano. Fuori dalla Galleria Alberto Sordi – che ha ospitato l’auto fino allo scorso 31 gennaio – c’è ancora il sole ma l’aria è fredda. Gelida e priva di calore umano come la brutalità della Mafia. Claudia è venuta con una sua cuginetta di nome Laura. Ha solamente sei anni e non sa nulla di Falcone e di quell’automobile sbalzata a 62 metri di distanza dal cratere, dove 572 chili di esplosivo fecero un inferno. Nessuno le aveva ancora raccontato di quel giorno del 1992 nel quale morirono cinque persone. Ora lo sa. Per quanto potrà comprendere o intuire, ha ben chiara la violenza di Cosa Nostra. “Se ci si ferma a guardare gli occhi di una ragazzina che osserva l’auto accartocciata su se stessa – ci spiega la dottoressa Eleonora Manna, psicologa, psicoanalista relazionale – si possono, a un occhio attento, leggere delle emozioni percepite come ‘nuove’ e per nuove possiamo intendere vere, non filtrate da alcuno schermo, se non quello di un vetro trasparente: stupore, paura, incredulità, confusione, forse del dolore se l’empatia è integra e si innesca la rabbia per ciò che qualcuno ha potuto fare, senza alcun tipo di rimorso. Dare un nome a tutte queste emozioni, mescolate fra loro e tutte presenti in un solo momento, diventa allora urgente e indispensabile”.
I ragazzi sono abituati alle scene di violenza trasmesse dai videogiochi… eppure
“Quelle che passano in tv o su un pc sembrano sempre immagini finte. Un po’ distanti, veloci, frutto della percezione di qualcun altro e legate a mondi inafferrabili. La realtà, vista davanti a una teca che contiene realmente il prodotto di menti mostruose, è altro. Realizzare che l’atrocità di un atto così crudele esista e che non sia frutto di un gioco, non ha lo stesso impatto sulla mente. Molti si chiedono se i preadolescenti, gli adolescenti o anche i bambini stessi, oggi siano più fragili, più impreparati ad affrontare questo mondo così complesso e difficile da capire. Se è la società a essere la colpevole, se è la tecnologia, la famiglia così iperprotettiva ma anche un po’ distratta o la scuola che non dialoga con la famiglia e viceversa. Si cerca di trovare un colpevole, una spiegazione a tanta incapacità nel gestire questa loro realtà o questa loro vulnerabilità”.
Realtà e virtuale sono due dimensioni scollegate?
“Per fortuna, il più delle volte, sono ben differenziate dal punto di vista psicologico. Trovare un ponte di comunicazione per i genitori è sempre più difficile perché quel virtuale spesse volte è davvero qualcosa che sfugge ai meno giovani. Un qualcosa che stimola gli impulsi dei ragazzini che conoscono bene come ci si muova sulla tastiera o sui comandi di un videogame ma che poi sono disorientati e incapaci nel ‘controllare’ le emozioni dinanzi a un rifiuto inaspettato, a un brutto voto a scuola, a uno scherzo di pessimo gusto di un amico o alla separazione dei genitori”.
Cosa possiamo fare per aiutarli?
“E’ fondamentale, con i bambini che si apprestano all’adolescenza, affrontare non solo le questioni della propria quotidianità, dei voti a scuola, dello sport. Bisogna parlargli delle emozioni legate al mondo reale. Anche di quello fuori dalle mura di casa e dal quartiere. Cose semplici della vita, belle e brutte, comuni e rare, passate e future. Parlarne per raccontare ma, soprattutto, per ascoltare i loro pensieri, le loro opinioni, emozioni e persino i loro silenzi”.
Ma è proprio qui la difficoltà, accettare che ciò che sembra tanto concreto e reale…
“La realtà è spesso incontrollabile così come lo sono gli impulsi crudeli. Hanno più a che fare con l’energia distruttiva che non con qualcosa che si possa gestire come la tecnologia. Non lo si può controllare come un gioco o un programma televisivo. Se quell’atrocità non piace al cuore, tale purtroppo resta e non può essere modificata. L’auto non tornerà integra come in un video gioco. Non si può cancellare il finale e riscrivere la storia”.
Il dialogo è sempre la soluzione?
“Assolutamente sì. E questo è ciò di cui dovremmo riuscire a parlare con i nostri figli. Spiegargli che la morte, le guerre, gli orrori e le atrocità del passato e del presente esistono ma possiamo solo conviverci. Alcune, invece, possiamo prevenirle, riconoscerle. Altre no ma non bisogna mai cadere nella rassegnazione. Il dolore e la tristezza, la rabbia e la paura, così come la gioia, vanno vissute intensamente, ogni giorno, in mezzo alla gente o anche in solitudine, ma senza cercare un anestetico che le renda falsate, che le distorca, che le allontani del tutto fino a non riconoscerle, come accade ogniqualvolta si è difronte ad un videogioco”.