A otto mesi dall’emergenza sanitaria che ha travolto il globo, in Italia tanti nodi logistici e organizzativi ancora non riescono a venire al pettine. Non si riesce, tra le molte cose, a immaginare un sistema di orari e di organizzazione che consentano di permettere agli studenti di ogni ordine e grado di partecipare alle lezioni scolastiche in presenza. Non si è riusciti, sinora, a incrementare significativamente la truppa di bus di linea con le migliaia di torpedoni turistici fermi ai box. Non solo, a Roma – qualche giorno fa – l’intera linea metropolitana di una grande capitale europea s’è fermata del tutto per assenza di personale: non si riesce spesso a garantire l’ordinario, figuriamoci ad operare in condizioni di emergenza.
Ma a fare impressione, nella gestione e interazione tra beni pubblici come l’istruzione e i servizi pubblici come i trasporti, sono soprattutto due fatti: l’impotenza della politica e le lotte intestine tra pezzi di pubblico che non appaiono disposti a compromessi, aperture e concessioni. Partiamo da un dato che è stato evidenziato dagli scienziati in questi mesi: ad essere pericolosa per la salute pubblica non sarebbe la presenza in sé degli studenti a scuola, ma tutto l’indotto e il sistema che dovrebbe condurli nelle aule, ovvero treni, bus e metropolitane. Su questa scia, ministri e tecnici hanno elaborato idee e proposte di vario genere, ma senza mai riuscire a proporre soluzioni d’insieme, di sistema, come compartimenti stagni che aspettano i cedimenti e le aperture degli altri settori.
La ministra dei Trasporti, Paola De Micheli, ha suggerito soluzioni alternative per gli orari scolastici: entrate ancora più scaglionate a scuola e aperture anche nei weekend. Dal canto loro, insegnanti e presidi dicono che il problema non sono loro, ma i trasporti.
“Sulla possibilità di scaglionare, con gli ovvi limiti di ragionevolezza, gli orari di ingresso a scuola ci siamo già espressi più volte favorevolmente – spiega il presidente dell’Associazione presidi Antonello Giannelli – il discorso, in linea di massima, va circoscritto agli istituti superiori delle quattordici città metropolitane per i quali possiamo pensare di posticipare l’ingresso alle ore 9.15. La condizione è che i mezzi di trasporto vengano conseguentemente riorganizzati per permettere agli studenti di arrivare a scuola e poi di rientrare a casa. Non dobbiamo dimenticare che moltissimi studenti affrontano spostamenti che durano oltre un’ora. Anche per questo ritengo irrealistico pensare di allungare la settimana scolastica anche alla domenica mentre il sabato, per moltissimi istituti, è già giornata di lezione”.
Una guerra di trincea, dove si rimane sulla propria posizione in attesa delle mosse dei contendenti che in paese normale dovrebbero essere gli alleati, uniti della resistenza a un’emergenza sanitaria ed economica senza precedenti.
“Al Governo abbiamo più volte ribadito che i finanziamenti statali destinati al trasporto pubblico locale per l’emergenza sanitaria (500+400 milioni) non sono sufficienti per far fronte al potenziamento dei servizi e alla riduzione dei ricavi delle aziende di Tpl” hanno spiegato, qualche settimana fa, gli assessori ai Trasporti di Lombardia, Friuli Piemonte, Veneto e Liguria.
Cerchiamo di ricostruire la rete: lo Stato vuole garantire le lezioni in presenza, che presuppongono un’elasticità organizzativa e infrastrutturale del sistema-scuola che non appare esserci e un sistema dei trasporti locali che però dipende dalle Regioni. Regioni che, a loro volta, accusano il governo che i mezzi in più – condicio sine qua non per mettere in sicurezza i trasporti e consentire di riprendere le lezioni – non ci sono a causa dei mancati finanziamenti governativi. Tutto bloccato quindi, da un lato con un governo che pare non avere strumenti e forza per imporre una linea ben definita da seguire durante la gestione di una crisi, e dall’altro categorie, enti locali e pezzi del puzzle che compongono il sistema Italia che si mostrano rigidi, guardinghi, attendisti, votati al tatticismo estremo in nome del “noi, il nostro, l’abbiamo fatto. Adesso ci pensino gli altri”.
A perderci, oltre alla credibilità e alla funzionalità del Paese, sono generazioni di studenti lasciati all’anonima didattica a distanza, privati di quella classe e di quel rapporto diretto con il docente che è alla base della formazione dei futuri cittadini.