Coronavirus, Europa divisa sulle misure di contenimento

Molto restrittive in Italia e Spagna, meno in Germania e Paesi Bassi. Mentre in Svezia si è puntato sulla responsabilità dei cittadini (che, va ricordato, sono però solo 10 milioni)

A più di due mesi dall’inizio dell’epidemia di coronavirus in Europa, il numero dei contagi e dei decessi vede ormai un calo generalizzato e progressivo, in particolare nei Paesi più colpiti dal virus. La risposta dei governi europei all’emergenza sanitaria ha assunto diverse sfumature: se a un estremo abbiamo Italia e Spagna, dove le misure approntate sono state molto severe, ponendo in sostanziale quarantena la quasi totalità della popolazione e bloccando l’economia nazionale, dall’altra parte vediamo come le autorità svedesi abbiano invece deciso di attuare una strategia di contenimento maggiormente centrata sulle responsabilità dei cittadini. In mezzo a questa ideale scala vi sono nazioni che in una prima fase hanno lavorato maggiormente sul controllo e il contenimento dell’epidemia e hanno allentato le restrizioni in anticipo rispetto ad altri paesi, come Germania e Paesi Bassi.

Il risultato di queste politiche non è di facile interpretazione, venendo influenzato da diversi dati e variabili. L’epidemia ha colpito duramente in tutta Europa, con ormai centinaia di migliaia di decessi e ponendo sotto sforzo tutti i sistemi sanitari coinvolti. Anche i danni all’economia sono purtroppo estesi a tutti i paesi del continente, come emerso anche oggi dalla presentazione delle previsioni di primavera della Commissione europea. La recessione riguarderà tutti, ha spiegato il vicepresidente Valdis Dombrovskis, con una contrazione del Pil nella zona euro che arriverà al 7,7 per cento nel 2020. Italia, Spagna e Francia, i paesi che hanno applicato le misure più severe per contenere il contagio, vedranno il volume delle proprie economie ridursi rispettivamente del 9,5 per cento, 9,4 e 8,5 secondo la Commissione europea. Ciononostante, la Spagna e l’Italia (insieme al Belgio) restano i paesi che hanno subito più morti per il coronavirus in rapporto alla popolazione, con 548 e 485 decessi per milione di abitanti, in base ai dati più recenti.

Le statistiche più recenti dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) segnano fortunatamente un declino in questo senso: nell’ultima settimana solo il 7 per cento dei nuovi casi di contagio da coronavirus si sono registrati in Italia. In Spagna e in Germania ne sono stati registrati il 5 per cento mentre il 67 per cento dei nuovi infettati sono concentrati in Russia, il 22 per cento nel Regno Unito e il 14 per cento in Turchia. Una differenza notevole rispetto ai dati della settimana tra il 20 e il 26 aprile, quando la stessa Oms registrava in Italia ancora il 15 per cento dei nuovi casi e il 22 per cento dei decessi. La pandemia continua a correre ma non è più in sella all’Italia, al momento. L’Oms aggiorna anche le percentuali di persone contagiate o decedute in rapporto all’età e al sesso. Nel quadro totale il 94 per cento dei deceduti risulta over 60, il 95 per cento aveva almeno un’altra patologia, il 61 per cento dei colpiti dal virus sono uomini e il 17 per cento operatori sanitari. L’Italia con oltre 213 mila casi accertati al 5 maggio e 29.315 vittime, è ancora fra i paesi più colpiti al mondo dal coronavirus, ma oggi l’indice di trasmissibilità del virus Sars-coV2 è al di sotto di R con zero (R0). Questo indice, chiamato anche “basic reproduction number”, misura la velocità di propagazione del contagio e dipende, secondo le indicazioni Oms, dalla velocità dell’interazione sociale delle persone.

L’obiettivo delle autorità sanitarie e delle indicazioni Oms è tenere questo indice al di sotto dello zero, in particolare a R=0,62. Anche un punto dietro lo zero virgola in più – specifica l’Oms – significa nel mondo un aumento di decine di migliaia di vittime, quando nessuno è ancora immunizzato per una malattia. Se è R è maggiore di uno, siamo in fase epidemica, se è inferiore, come adesso in Italia, il contagio sembra contenuto, sotto controllo. Per meglio spiegare: nelle ultime due settimane i morti in Italia sono arrivati a 29.315 e nel Regno Unito a 29.427, ma nello stesso arco di tempo i nuovi casi confermati di coronavirus in Italia sono stati 30.711 e nel Regno Unito 65.841. Quando in Italia è iniziata la progressiva chiusura delle attività sociali, secondo gli epidemiologi italiani, R era compreso tra 2 e 3. Secondo uno studio più recente, condotto da un gruppo di ricercatori italiani e svizzeri e pubblicato dall’Accademia delle scienze degli Stati Uniti (Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America), alla fine di febbraio, quando ancora si parlava in Italia di paziente zero, l’indice di contagio in alcune aree sarebbe stato addirittura compreso tra il 3,6 e il 5,7 e solo le misure di distanziamento sociale adottate, per prima dalla Regione Lombardia nelle zone rosse, avrebbe salvato 200 mila vite fino alla fine di marzo, evitando il 45 per cento dei contagi.

Il lockdown nazionale in Italia scatta l’8 marzo, dopo il discorso del premier Giuseppe Conte la sera precedente che annunciava una sorta di “zona rossa” per l’intera Penisola. In quel giorno i morti in Italia sono 463. Quasi la stessa cifra davanti alla quale, il 23 gennaio, le autorità di Wuhan decidono la chiusura della città, misura poi ampliata ad altre 15 città del distretto dell’Hubei. Secondo lo studio svizzero-italiano per l’Accademia delle Scienze Usa però a Wuhan alla data del 23 gennaio in realtà i casi di decessi sarebbero già stati 2.500. L’11 marzo l’Oms decreta la pandemia. Fino a quel momento però, a partire dal 21 febbraio, con i primi casi riscontrati a Codogno e Vò Euganeo, erano già iniziate, a macchia di leopardo in Lombardia e in Emila-Romagna, le prime chiusure di intere cittadine in quarantena o “zona rossa”.

Quanto ai test per il rilevamento dei contagi, in Italia fino al 3 marzo erano 23.345. Una cifra considerevole che portava l’Italia ad essere il secondo Paese per numero di persone controllate dopo la Sud Corea, all’epoca con 109.591 test. I risultati di quello screening della popolazione segnalavano in Sud Corea il 4,4 per cento della popolazione infettata, in Italia l’8,7 per cento, il doppio. E ciò accreditava una velocità di contagio di R= 2,6 in Italia e invece una epidemia già quasi sotto controllo in Sud Corea, in virtù dell’impiego di drastiche misure di sorveglianza di massa tramite distanziamento sociale, l’immediata diffusione del contact tracking e una capillare sanificazione di città e mezzi di trasporto. A partire dal 24 febbraio la Protezione civile italiana inizia le conferenze stampa quotidiane della sera per fornire i dati del contagio e le informazioni sull’epidemia. Le direttive anti pandemia dell’Oms risalgono al 13 marzo. È invece dell’8 aprile la Guida per l’uscita dall’isolamento nel contesto della pandemia pubblicata dall’European center of disease prevention and control, sorta di protezione civile in ambito sanitario dell’Unione europea. Il governo italiano il 13 marzo prolunga il lockdown a dopo Pasqua, mentre il 17 marzo arriva il decreto Cura Italia, poi ulteriormente procrastinato e contenuto nelle graduali libertà concesse a partire dal 4 maggio.

A oltre due mesi di distanza dall’insorgere dell’epidemia, gli epidemiologi di tutto il mondo studiano come l’Italia ha reagito per cercare di superare l’ondata di Covid-19 salvando il suo Servizio sanitario nazionale, in un paese democratico europeo, con l’unica esperienza pregressa della Cina. Del virus, di come si propaga, dei soggetti che bersaglia più pesantemente, del perché colpisce più gli uomini che le donne, dell’immunità di gregge, si sa ancora ben poco. Un farmaco specifico ancora non esiste e forse arriverà prima un vaccino. Due sono in preparazione soltanto in Italia, ad opera di due aziende di biotech nella zona di Pomezia, vicino Roma: ReiThera e Takis. Nel frattempo per spiegare la mortalità più alta registrata in Italia rispetto ad altrove (dal 18,3 per cento della letalità in Lombardia al 5 per cento dell’Umbria e al 6,5 per cento della Basilicata), l’Istituto superiore di sanità rileva che i decessi sono registrati per cause concorrenti. L’insufficienza respiratoria è stata la complicanza più comunemente osservata (97,1 per cento dei casi), seguita da danno renale acuto (23,3 per cento) e sovrainfezione (12,6 per cento) e danno miocardio acuto (10,9 per cento). Secondo molti medici sui fronti caldi della pandemia, però, occorrerebbe condurre più attenti esami sull’interrelazione tra mortalità da Covid-19 e infezioni batteriche opportunistiche, confrontando i dati con la farmacoresistenza da antibiotici, record europeo in Italia, e l’incidenza di infezioni ospedaliere.

In altri paesi europei il contagio è arrivato con tempistiche differenti, portando i governi ad attuare strategie in alcuni casi ispirate a quella italiana. E’ il caso della Spagna, dove il primo caso di coronavirus è stato registrato il 31 gennaio nell’isola di La Gomera (Canarie) mentre i primi contagi nella penisola sono stati scoperti il 24 febbraio. All’inizio della pandemia, tre comunità autonome risultavano più colpite: Catalogna, Madrid, Valencia. Il 9 marzo, in tutta la Spagna si conteggiavano 1.439 infetti; nella stessa giornata, il governo dichiarava lo stato di “contención reforzada” (“contenimento rinforzato”) in tutto il paese e la comunità di Madrid chiudeva tutti i centri educativi della regione. Il 14 marzo, l’esecutivo, il primo ministro spagnolo, Pedro Sanchez, proclamava lo stato di allerta per limitare gli spostamenti dei cittadini. In quello stesso giorno, 6.809 persone risultavano contagiate in tutto il paese e la maggioranza dei casi (3.259 infetti) erano concentrati nella regione di Madrid. Durante il lockdown era consentito uscire di casa solo per andare al lavoro o per raggiungere supermercati, farmacie e alimentari. Il 27 marzo veniva inaugurato l’ospedale della fiera di Madrid (Ifema) pensato per accogliere e isolare i pazienti infetti dal Covid-19.

Il 26 aprile, l’esecutivo spagnolo ha permesso le uscite ai minori di 14 anni accompagnati da un genitore. Il 4 maggio, il governo ha stabilito tre fasce orarie per garantire le uscite a tutta la popolazione. In questa fase, gli adulti possono uscire di casa tra le 6:00 e le 10:00 e tra le 20:00 e le 23:00. Nello stesso giorno, fisioterapisti, parrucchieri ed estetisti hanno potuto riaprire le loro attività mentre i bar hanno potuto riattivare il servizio di take away. Per la riapertura definitiva, bar e ristoranti dovranno attendere il 25 maggio mentre l’intero settore della ristorazione dovrebbe ripartire definitivamente l’8 giugno. Il calendario delle riaperture è soggetto all’andamento della pandemia nel paese.

Simile la situazione anche in Francia, che si è preparata all’arrivo del coronavirus con una disponibilità di 5mila letti nei reparti di rianimazione su tutto il territorio nazionale. Un numero rivelatosi insufficiente, tanto da costringere il governo ad annunciare a fine marzo l’obiettivo di raggiungere i 14.500 posti. Le misure di restrizione imposte su tutto il territorio sono scattate il 17 marzo alle 12:00. Inizialmente prevista per 15 giorni, la quarantena è stata prolungata fino all’11 maggio, data in cui il paese comincerà un “de-confinamento” progressivo. In questo periodo le attività commerciali sono state quasi tutte chiuse, ad eccezione di quelle considerate essenziali e gli spostamenti sono stati limitati al massimo. Per far rispettare le misure il governo ha dispiegato su tutto il territorio 100 mila agenti tra poliziotti e gendarmi.

Dinnanzi alla penuria di materiale sanitario, il presidente Emmanuel Macron il 31 marzo ha annunciato che il paese arriverà a produrre 15 milioni di mascherine a settimana a partire da fine aprile e 10 mila respiratori entro metà maggio. Il governo ha organizzato il ritorno alla normalità su base territoriale seguendo due criteri: la circolazione del virus e la disponibilità degli ospedali. Secondo questi parametri i dipartimenti sono stati divisi in rossi, arancioni e verdi. La carta definitiva verrà annunciata solamente il 7 maggio. Per ripartire, le aziende dovranno seguire un rigido protocollo sanitario che prevede uno spazio di 4 metri quadri per ogni dipendente, la gestione dei flussi di persone e la fornitura di mascherine.

Il governo del Regno Unito è stato invece criticato su molti fronti per il suo particolare approccio rispetto alla crisi coronavirus. La leadership britannica non ha investito in test per il virus durante le prime settimane dell’epidemia, e ha fornito tamponi solo a coloro nella fascia d’età a rischio o a chi ha mostrato sintomi per più di 7 giorni. Dal 25 gennaio al primo di marzo sono state testate solo 11.750 persone. Invece di dichiarare misure restrittive e di distanziamento sociale, il governo britannico ha inizialmente adottato l’approccio dell’immunità di massa. Quest’ultimo consiste nel lasciare che la maggioranza della popolazione si ammali, così che sviluppi anticorpi e diventi successivamente immune. Tuttavia dati forniti dal gruppo di ricerca dell’Imperial College a Londra hanno avvertito che una politica di diffusione controllata di questo tipo avrebbe potuto causare più di 250mila morti. L’esecutivo ha quindi deciso di attuare una politica di tipo diverso, avviando le misure restrittive – il cosiddetto lockdown – il 23 di marzo. Il governo ha dichiarato ai tempi che meno di 20mila morti sarebbero state “un buon risultato” per il Regno Unito.

Le misure restrittive introdotte il 23 di marzo sono ancora in vigore. Scuole, bar, ristoranti, palestre e negozi non essenziali sono stati chiusi. Si può andare a fare la spesa, andare in farmacia, uscire per fare esercizio fisico una volta al giorno. Non si possono organizzare incontri ravvicinati con persone al di fuori della casa in cui si vive. Tutti gli eventi, inclusi i matrimoni ma esclusi i funerali sono stati cancellati. Solo chi non può assolutamente lavorare da casa può andare al lavoro. L’impatto di queste misure restrittive sull’economia è stato forte: si prevede che il prodotto interno lordo del Regno Unito diminuisca di una percentuale tra il 15 e il 25 per cento nel trimestre aprile-giugno. Il premier Boris Johnson spiegherà domenica prossima le linee guida per un graduale allentamento delle misure restrittive che dovrebbe iniziare verso la fine di maggio. Si prevede che Johnson parlerà di regolazioni per riavviare l’economia, di quando verranno riaperte le scuole – a giugno le elementari – e di come riorganizzare le attività lavorative. La fase due inizierà solo se il tasso di trasmissione del coronavirus si abbasserà a meno di uno, ovvero quando ogni persona infetta trasmette il virus a meno di un’altra persona e il numero totale di malati diminuisce.

Si pensa che le aziende potranno riaprire con diverse tempistiche e che potenzialmente il pubblico potrebbe essere obbligato a indossare mascherine protettive fuori da casa. Per ora la maggiore informazione rilasciata dal governo è quella che le linee guida per l’allentamento delle restrizioni non potranno essere concretizzate finché cinque criteri verranno soddisfatti. Il primo è che il sistema sanitario britannico (Nhs) abbia capacità sufficiente per fornire cure critiche e specialistiche in tutto il Regno Unito. Il secondo è che ci sia un calo sostenuto e sostanzioso nei decessi causati dal coronavirus a livello giornaliero. Il terzo parametro consiste in dati credibili che mostrino che il tasso di infezione è in abbassamento e può essere contenuto. Il quarto e quinto criterio sono relativi alla capacità di provvedere test e materiale protettivo in quantità adatta rispetto alla domanda futura e alla necessità di evitare un secondo picco di infezioni che sopraffarebbe l’Nhs.

La gestione della pandemia di coronavirus in Germania è stata caratterizzata dalla struttura federale del Paese e dal ritardo con cui, rispetto ad altri Stati, il morbo si è manifestato. L’obiettivo è stato da subito guadagnare tempo e ora è quello di convivere con il virus fino alla scoperta di un vaccino in un equilibrio tra tutela delle salute e andamento dell’economia. In primo luogo, le autorità hanno provveduto a un netto aumento dei tamponi e a potenziare il sistema sanitario, in particolare le capacità di terapia intensiva che all’inizio della pandemia ammontavano a 28 mila posti letto. In applicazione della Costituzione, la prima risposta all’emergenza è stata data dagli esecutivi dei Laender. Per una gestione unificata, il governo federale è quindi intervenuto esercitando un ruolo di coordinamento con gli Stati attraverso una consultazione costante tramite periodiche riunioni tra il cancelliere Angela Merkel e i primi ministri per l’elaborazione di linee guida valide in tutto il paese. In tali incontri, sono state decise misure restrittive per il contrasto al contagio. Si tratta, tra l’altro, di provvedimenti per il distanziamento sociale, chiusure parziali di attività economiche, scuole, università, edifici di culto e luoghi pubblici, divieto di tenere grandi eventi, ripristino dei controlli ai confini e limitazioni alla libertà di movimento. Approvate alla metà di marzo, le misure restrittive sono state rinnovate una prima volta fino al 20 aprile, quando sono state parzialmente abrogate. In particolare, sono state riaperte le attività commerciali con superficie inferiore agli 800 metri quadri e, in parte, le scuole. Un secondo allentamento è in vigore dal 3 maggio scorso. Sono tornati in attività alcuni settori dell’economia e, per esempio, i musei hanno riaperto. Le grandi imprese hanno deciso essenzialmente in autonomia come rispondere all’emergenza, fermando e poi riavviando la produzione. Il governo federale e gli esecutivi dei Laender discuteranno di un possibile ulteriore allentamento nella giornata di domani, 6 maggio. Va ricordato che i Laender stanno attuando propri piani per quanto riguarda le tempistiche delle riaperture e le aree su cui vanno a incidere. La legislazione più restrittiva, assimilabile alla Fase 1 dell’Italia, è stata adottata dalla Baviera, tra i maggiori poli produttivi del paese. A sua volta, il governo della Renania settentrionale-Vestfalia, il Land più ricco, preme per una rapida abolizione delle restrizioni su scala federale, mentre già procede in tal senso in autonomia. Con il Baden-Wuerttemberg, i due Stati sono quelli maggiormente colpiti dalla pandemia. La risposta del governo federale alla crisi si è caratterizzata, infine, per un massiccio aumento della spesa pubblica, che ha portato all’approvazione di una manovra aggiuntiva da 156 miliardi di euro.

L’approccio dei Paesi Bassi all’emergenza coronavirus può essere sintetizzato con l’obiettivo di controllare l’andamento dei contagi il più possibile al fine di proteggere le categorie più vulnerabili della popolazione. “Se riusciamo a fare questo, possiamo muoverci gradualmente verso una maggiore libertà in una società a 1,5 metri di distanza”, si legge nel portale governativo online che illustra le misure prese dall’esecutivo guidato da Mark Rutte. L’indicazione di massima delle autorità olandesi è quella di stare a casa per quanto possibile, di lavorare da casa e di mantenere sempre la distanza di 1,5 metri dagli altri. Le misure restrittive nei Paesi Bassi sono state estese fino al 19 maggio, con l’eccezione delle scuole primarie che riapriranno dall’11 maggio. Già dal 29 aprile sono state concesse inoltre maggiori libertà ai bambini e agli adolescenti per fare sport e giocare all’aperto. I funerali ed i matrimoni sono ammessi, ma con il limite di partecipazione di 30 persone e sempre con l’indicazione della distanza di 1,5 metri. I grandi eventi sono stati vietati invece fino al primo settembre 2020.

Il governo olandese afferma di puntare in ogni caso ad evitare “situazioni irresponsabili” che potrebbero accelerare la diffusione del coronavirus. Fino al 19 maggio saranno chiusi i negozi che vendono cibo e bevande, mentre rimane possibile il servizio di take away. Nei negozi rimasti aperti e nei mezzi pubblici bisogna mantenere la distanza, limitando il numero di persone che può accedervi. Nei Paesi Bassi, al 3 maggio, 40.571 sono risultate positive al coronavirus, mentre è stata superata la soglia delle 5 mila vittime. I laboratori olandesi sono in grado di processare 17.500 test per giorno; controlli che vengono concentrati al momento ai lavoratori nel settore sanitario e che, dall’11 maggio, verranno estesi anche al personale del settore dell’istruzione in vista della riapertura delle scuole primarie.

Uno degli approcci che ha fatto parlare di più in Europa è infine quello della Svezia, fondato su poche restrizioni imposte dal governo e affidamento alla responsabilità individuali dei cittadini. La ricetta per contrastare il coronavirus scelta dal governo del premier Stefan Loftven, che guida una coalizione tra socialdemocratici e verdi, è considerata da alcuni come un modello per la “fase due” dell’emergenza Covid-19. Il paese scandinavo, con pochi più di 10 milioni di abitanti, di fatto non ha mai imposto un vero e proprio lockdown, facendo registrare comunque un numero di vittime e di contagiati piuttosto contenuto: al 4 maggio i due dati si sono attestati rispettivamente a 2.769 ed ai 22.721 casi. Sono state circa 1500 le persone ricoverate in terapia intensiva negli ospedali svedesi dall’inizio dell’emergenza. Il governo di Stoccolma non ha imposto restrizioni particolari agli spostamenti dei cittadini, tenendo aperte alcune scuole, i bar, i negozi ed i ristoranti. L’esecutivo ha però vietato gli assembramenti di oltre 50 persone, l’ingresso ai musei, le manifestazioni sportive e ha disposto la chiusura delle palestre, di alcuni istituti scolastici e delle università. Dal governo svedese sono arrivate prevalentemente degli inviti alle responsabilità individuali: messaggi e campagne pubbliche evidenziano l’importanza dell’igiene personale, del lavoro da casa ove possibile e del mantenimento di un certo di livello di distanza nei luoghi pubblici. Per quanto riguarda il numero di test effettuati, a fine aprile sono stati 120 mila con un tasso di positività attorno al 16 per cento. Il governo svedese ha inoltre annunciato un piano per un imponente aumento dei test che dovrebbero raggiungere un numero tra i 50 mila ed i 100 mila a settimana, con un’attenzione particolare al personale più impegnato sul campo come agenti di polizia e infermieri.

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