In occasione del completamento del restauro delle pitture della Cupola del Duomo di Pisa, realizzate da Orazio Riminaldi, è stata promossa l’esposizione dedicata all’artista pisano che nel corso della sua breve vita non godette della meritata fama di grande maestro del Barocco. La mostra dal titolo “Orazio Riminaldi. Un maestro pisano tra Caravaggio e Gentileschi” presso il Palazzo dell’Opera dal 28 maggio al 5 settembre 2021, dietro la curatela Pierluigi Carofano e Riccardo Lattuada, intende mettere in luce la carriera artistica di Riminaldi attraverso alcune delle sue opere più significative e con la vicinanza dei grandi artisti a lui coevi e con cui entrò in contatto, grazie a numerosi prestiti privati e di Istituzioni museali
Cruciale, infatti, è il contributo che i grandi maestri trasmisero al giovane Riminaldi, giunto a Roma nel 1620, a soli 27 anni. Esemplari in tal senso sono i tre prestiti della Fondazione Sorgente Group, fondata da Valter e Paola Mainetti. Così il dipinto di Santa Cecilia del Guercino mette in evidenza i contatti stretti che i due artisti ebbero nei salotti dei più ambiti collezionisti della Roma barocca. Sebbene, infatti, l’attenzione del pittore pisano fosse rivolta alla novità rappresentata dal caravaggismo e dalla sua rivoluzionaria interpretazione della luce e del chiaro-scuro, Riminaldi riuscì ad adattarci una sua personale impronta cromatica, la cui ispirazione si ritrova certamente nei dipinti del Guercino e in particolare nella “Santa Cecilia”. Questa assimilazione è ancora più evidente in un’altra opera esposta in mostra, il “San Pietro penitente”, proveniente dalla collezione Mainetti. Realizzato dal maestro bolognese a Roma probabilmente nel terzo decennio del Seicento, il dipinto fortemente introspettivo, rende ancora più palese la sintesi fra il chiaroscuro caravaggesco e il dosato utilizzo del colore, che qui è ben evidente negli incarnati del santo.



Da attento osservatore quale era, durante il suo soggiorno romano, che durò fino al 1627 – anno del rientro in patria per la committenza del Duomo – il giovane Riminaldi riuscì ad immagazzinare moltissimi elementi stilistici che poi si ritroveranno nelle sue opere. Oltre a Guercino e al Reni, fra i suoi maestri ideali ci furono sicuramente anche Annibale Carracci e Agostino Tassi così come Giovanni Baglione, ammiratore e rivale del Merisi – di cui è esposto in mostra un emblematico San Giovanni Battista di impronta caravaggesca, da collezione privata – e il Cavalier d’Arpino, colui che per primo ebbe a bottega il giovane Caravaggio, quando giovanissimo approdò a Roma.
Esponente di quella scuola classicista molto in voga fra i collezionisti romani nel XVI secolo, Arpino fu un personaggio catalizzatore di personalità, anche grazie ai contatti che intratteneva nelle Sacre Stanze, dove rivestiva incarichi di rilievo. Un pittore che seppe farsi apprezzare per la raffinatezza delle sue composizioni e per i forti contrasti cromatici presenti nelle sue opere. Una caratteristica che si rafforzò ulteriormente nel periodo della sua piena maturità artistica con il ricorso sempre più frequente a colori a base di lacca, che aumentavano la brillantezza, specie dei panneggi. Tutti questi elementi sono ben visibili in un altro dipinto in mostra a Pisa, sempre proveniente dalle raccolte della Fondazione Sorgente Group, raffigurante “Santa Cecilia” accompagnata da un putto e da un’altra figura femminile.
Lo straordinario bagaglio culturale maturato negli anni romani consentì al Riminaldi di poter accettare con maggior sicurezza la commissione offertagli da Curzio Ceuli, potente banchiere pisano e Primo Operaio dell’Opera (di fatto il direttore generale dei lavori) per la realizzazione della “circolar parete”. La sicurezza con cui il pittore pisano accettò la commissione fu tale da optare per una tecnica innovativa e poco utilizzata dai suoi colleghi (proprio per le difficoltà che questa implicava): l’olio su muro, un metodo più complicato e con minor margini di errore rispetto al più diffuso e utilizzato affresco.
Un lavoro che impegnò Riminaldi solamente per tre anni, dal 1627, anno di rientro in patria, fino al 1630, quando purtroppo la morte lo colse prematuramente a 37 anni, vittima dell’epidemia di peste, raccontata da Manzoni nel suo romanzo “I Promessi Sposi”. Questa scomparsa improvvisa, nel pieno della maturità artistica stroncò l’ascesa brillante di questo pittore che nella sua carriera seppe dialogare alla pari con i grandi maestri a lui coevi, come questa mostra vuole mettere in luce.