Strane Straniere racconta la storia di cinque donne migranti: Sonia, Sihem, Radoslava, Ana e Ljuba. Cinque lavori diversi, cinque Paesi e realtà diverse, una patria di “elezione”: l’Italia. Il documentario realizzato dalla regista Elisa Amoroso sarà al cinema l’8 marzo. Elisa Amoruso ha diretto il film, presentato alla Festa del Cinema, e ha firmato il soggetto insieme all’antropologa Maria Antonietta Mariani.
“Strane Straniere è nato da un progetto antropologico, curato da Maria Antonietta, che ha pensato di rintracciare le storie di queste donne, e tutte quante avevano avuto la forza e il coraggio di dare vita a un loro sogno: aprire un ristorante, un’associazione culturale. Queste sono solo alcune delle storie raccolte da Maria Antonietta, loro hanno prima preso parte a un progetto fotografico, patrocinato dalla Regione Lazio”, ha spiegato la regista Amoruso.
“I produttori mi hanno chiesto di realizzare un film. Devo dire poi che una volta incontrate mi sono appassionate alle storie di tutte”, ha aggiunto. “In realtà questo fenomeno non è affatto raro – spiega l’antropologa Mariani – Di queste storie ce ne sono tante, ma nessuno vi aveva guardato dentro. In realtà siamo abituate a guardare le migrazioni solo nel lato della sofferenza, non guardiamo al coraggio e alla forza che si tirano fuori. Quello succede dopo l’accoglienza, queste storie lo raccontano”.
Dopo aver diretto Fuoristrada, Elisa Amoruso torna al documentario: “Non è un documentario classico, ormai i documentari sono dei veri propri film, come Fuocoammare. È giunto il momento di interrogarsi sulla dignità estetica del documentario. La stessa dei film di finzione, questa scelta è diventata di contenuto quando ho pensato che spiare queste donne nelle vite reali fosse una cifra linguistica ed estetica. In tutte le storie ricorrono dei momenti simili. Il mio tentativo era seguirle nelle vite quotidiane, utilizzando le voci in off ho dato più corpo a un sentimento che a un’informazione”.
Tocca a quattro delle cinque protagoniste prendere la parole: la tunisina Sihem, la cinese Sonia che gestisce uno dei ristoranti etnici più noti della Capitale, la serba Ljuba e la croata Ana, due amiche che hanno una galleria d’arte a Monti. La prima a parlare è proprio Fenxia “Sonia” Zhou: “Il film rappresenta bene il momento di quel periodo, la realtà adesso è cambiata. Avevo detto a Elisa tante volte che non potevo farlo, poi mi ha convinto. C’è un sentimento nel film e mio marito e i cinesi non devono vederlo. Io ho più amici italiani che cinesi, loro dicono a me che sono straniera, quindi sono diversa, sono una strana straniera”.
La tunisina Sihem Zrelli racconta della sua associazione: “Ho rivisto tutto il percorso che abbiamo fatto per il volontariato. Nel film si vede il volontariato sociale a cui si dedicano moltissimo. Anche un’altra parte si è vista, quella di imprenditoria, che faccio con tanta difficoltà. Questo si è visto che non siamo attrici, ma siamo donne reali con vite normalissime, con difficoltà, disagio e pregiudizi. Abbiamo lanciato il messaggio che si può arrivare, tutto è possibile. Grazie a nome di tutte le donne immigrate”.
Diversa la storia di Ana Laznibat, arrivata in Italia per lavorare come architetto: “Per noi non è stato facile prendere parte a questo documentario, non siamo attrici. Dopo che abbiamo preso parte a questo progetto, ha dato visibilità alla nostra storia. C’è molto di più rispetto a questa storia, è importante dare loro vita perché la gente inizia ad accorgersene che gli stranieri intorno a loro sono normali. Non sono uno spauracchio, i figli degli stranieri che fanno parte della società di oggi”.
Ljuba Jovicevic aggiunge: “La nostra intenzione era dare un’immagine positiva alle donne migranti, una volta accese le telecamere diventavamo molto serie. Abbiamo affrontato le riprese con allegria, ma la nostra voce e la nostra immagine è diversa dalle telecamere. Ma soprattutto ha cambiato l’immagine nel quartiere. La nostra galleria è a Monti da 15 anni, da quando sono state fatte le riprese con l’équipe finalmente ci vedono in un’altra ottica. Loro non hanno mai capito quale fosse la nostra vera attività. Quando abbiamo iniziato a parlare di Strane Straniere ci hanno detto: Abbiamo finalmente capito, voi siete strane straniere, significa molto ma anche che non devono approfondire”. Assente la quinta protagonista Radoslava Petrova.
Nel film non si fa riferimento ai dati dell’imprenditoria straniera al femminile: “Volevamo unire arte e antropologia, parlare di storie in un lavoro che è chiuso al pubblico. Si scrive un libro, si realizza un documentario, ma è tutto chiuso. Volevamo raccogliere queste storie, quasi delle performance. Le donne hanno incontrato il pubblico, ci sono molti lavori anche di artiste straniere affinché le persone potessero vedere le storie che ci sono dietro le persone. Per esempio Ana e Ljuba, le persone le incontravano nel quartiere ma non parlavano con loro. Non volevo fare un lavoro statistico, ci sono dei dati. È un fenomeno che le persone non conoscono, per questo abbiamo usato l’arte, permette di vedere cose che non conosciamo”.
Tunisia, Serbia, Cina, Croazia, Bulgaria, le cinque donne vengono da realtà diverse, quanto è stato difficile per loro integrarsi in Italia.
Il caso di Ana e Ljuba è diverso: “Il mio percorso è stato semplice, ho avuto una borsa di studio e ho iniziato a lavorare. Non ho avuto particolari difficoltà, ci sono però molte cose burocratiche con cui ci si scontra in eterno. Rinnovare il permesso di soggiorno anche con contratto a tempo indeterminato, io vorrei fare un documentario su cosa bisogna affrontare su come essere in regola”.
“Anch’io come Ljuba ho avuto un approdo in Italia pratico, ma ho avuto difficoltà a riconoscere la mia laurea. All’epoca era impensabile, all’epoca, che uno straniero avesse una laurea. Quindi mi sono dovuta iscrivere al terzo anno, rifare tutto il percorso di nuovo, quando nei nostri Paesi nella ex Jugoslavia i percorsi scolastici erano molti difficili. A me è sembrato molto difficile ristudiare, ma ce l’ho fatta e sono riuscita a farmi riconoscere la laurea”, aggiunge Ana.
Più difficile il percorso della tunisina Silem: “Non ho sentito molto il fatto di essere musulmana, ma certe volte ci si trova di fronte al pregiudizio. In Italia poi mi occupo di anziani, una categoria su cui esiste un pregiudizio da italiano a italiano, figurati io che sono imprenditrice in questo settore. Ho trovato la forza di abbattere altri muri, basta che ci sia una famiglia che si è trovata bene, così ho iniziato il mio percorso d’imprenditrice. Adesso mi sento bene, mi trattano come una persona qualsiasi. Per me l’inizio è stato molto difficile”.
Per Sonia, la difficoltà è stato adattare la cucina ai gusti degli italiani, ma lo scoglio più duro è stato “imparare la lingua”: “Basta cucinare qualcosa di buono e la gente assaggia. Dietro il mio lavoro c’è sempre tempo e ci metto il cuore, difficoltà non è tanto. In Cina si mangino tante zuppe, ma nessuno viene a mangiarle in Italia”.
Le storie delle donne nel documentario sono personali, proprio Sonia è quella che si è spinta più oltre: “Nessuno racconta la mia storia, forse a un italiano sì, ma a un cinese non importa. La storia è tutta vera, rivedendo il film mi sono commossa, ho ripensato al passato: mio marito ora è tornato. A tutte le donne capitano delle storie”. Sonia ha parlato a lungo nel film della crisi con il marito: “Quando sono arrivata, è scappato per due anni, avrei dovuto divorziare, ma dopo sei mesi è tornato. Tutto è vero non ho nascosto nulla”.
Anche Sihem è stata se stessa: “Le mie sono state le riprese più lunghe, quasi due settimane, ma davanti alla telecamera m’irrigidivo. L’unica parte tenera è quella con mio marito. Avevo chiesto a Elisa di non toccare due argomenti: i figli e mio padre, ma lei chiaramente non l’ha fatto”.
Ana e Ljuba invece hanno girato tutto in una giornata e mezza, perch Ljuba vive da tempo a Francoforte: “Non c’era tempo di rilassarsi o di pensare. Nel film si vede tutto”, spiega Ana. “Si vede la storia di un’amicizia, le nostre famiglie non sono con noi e sono in secondo piano. La famiglia, poi, vive in Germania ed era impensabile far venire tutti per le riprese. Le nostre cose sono semplici: famiglie, figli, sposate con italiane, niente di così misterioso”, ha aggiunto Ljuba.
Strane Straniere ha avuto delle “riprese rocambolesche”: “Non tutte le donne erano a Roma, e poi erano sempre impegnate e il film doveva seguirle nelle loro vite. Per esempio Ljuba e Ana, negli ultimi due giorni, le abbiamo massacrate. Con Radi, poi, le riprese sono slittate, il mare non andava bene, non c’era la barca. E poi ero anche incinta all’ottavo mese e potevo partorire sul peschereccio. Inoltre avevamo pensato a un’altra donna, Aida, per rappresentare la tunisina, ma ha avuto un problema di salute e Silhem è arrivata all’ultimo”.
La fase più dura però è stata il montaggio, durato due anni: “È stato un parto reale anche perché tutte le montatrici erano incinta”.
Nel documentario mancano le donne subsahariane: “Abbiamo scelto le donne su 15 per casualità. Fra loro c’era anche Gloria Roberts, una nigeriana, che ha una tipografia. Gloria però andava e tornava dalla Nigeria, e all’epoca la Nigeria era a rischio ebola ed Elisa incinta non se l’è sentita”, ha sottolineato Martini.
“Gloria era poco organizzata in quel periodo”, ha aggiunto la regista che ha parlato di più sulle donne prescelte: “All’inizio dovevano essere tre storie: Aida, Radi e e Sonia. Poi Aida è stata sostituita da Silhem e io mi aveva colpito la storia di Ana e Ljuba, hanno un’attività differente e la loro è un’amicizia particolare e il loro modo di raccontare era diverso. Le protagoniste sono diventate cinque”.
Prima di Strane Straniere, Amoruso aveva già parlato di minoranza nel documentario Fuoristrada: “È in qualche modo lo stesso tema, ci sono delle minoranze che non vanno emarginate, ma vanno viste come valore aggiunto. Vanno anche raccontate senza pregiudizio e dal punto di vista intimo e sentimentale. Quando lavori a un documentario, il progetto è in fieri. In Italia, difficilmente all’immigrazione è dato un valore: sono straniere particolari. Certo rispetto a Fuoristrada, sono storie normali. Anche al montaggio abbiamo cercato un altro elemento: il filo comune è nell’emancipazione da alcuni rapporti sentimentali sbagliati”.
Il cinema di riferimento per la regista: “È quello dei Dardenne, Rosetta, L’Enfant, delle persone ai margini. E anche Edoardo De Angelis e Indivisibili”.
A Strane Straniere, in sala dall’8 marzo, è assegnato il Premio Aphrodite per il miglior documentario.