Questo articolo è uscito sul Terzo numero della newsletter “Osservatorio sulla Capitale”
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Roma si sa è famosa anche per i suoi acquisti “al volo”. Poche altre città esibiscono un ventaglio così ampio di “vendite alternative” e con prezzi più che invoglianti. La realtà del centro (Tridente e Tridentino) poi, è a dir poco singolare: grandi brand affiancati da outlet più o meno temporary e da ambulanti e raduni di banchetti di ogni genere. Lasciamo da parte le “iperfirme” e ci occupiamo delle altre due realtà, diciamo, minori.
Un diffuso fiorire di mercatini
Dal centro alla periferia è tutto un fiorire di “mercatini” che dall’abbigliamento usato alle pentole vendono di tutto. Da viale di Trastevere, a via Frattina, da Cola di Rienzo al deturpato piazzale Flaminio, ogni luogo di passaggio diventa buono per il commercio a cielo aperto.
L’ultimo “caso bancarelle” riguarda via Cola di Rienzo che ha fornito argomento generale per esprimere sdegno e riprovazione attribuendo ad esso persino il presunto declino della strada.
In questo caso, come in altri, viene usato il termine SUK ad indicare disordine, confusione e paccottiglia. Prima di tutto l’esatto termine è SUQ e ricordiamo, anche, che è sinonimo di zona ben circoscritta o quartiere adibiti esclusivamente alla vendita.
Nella Capitale invece si verifica esattamente il contrario e imperversa, ormai un altro fenomeno: il “commercio diffuso”. Un sistema capillare e itinerante che porta in ogni angolo di Roma gli ambulanti con la loro merce. Sia le postazioni che le licenze sono, per la stragrande maggioranza, autorizzate, anche se mai esposte, come invece avviene in altre città. Quindi, se dobbiamo puntare il dito contro i responsabili del disordine, allora è più corretto lasciar perdere (per un momento) i “bancherellari” e indicare il Comune e il Dipartimento che, negli anni, di licenze, ne hanno concesse troppe. Per altro traendone grandissimo profitto.
La questione della concorrenza sleale: prezzi e qualità
Spesso si giudica che gli ambulanti operino in regime di “concorrenza sleale” o addirittura di “attentato al commercio”. Ma questo è gravissimo, sarebbe come ammettere che negozi e “itineranti” vendano la stessa tipologia di merce, con uguali qualità, proprietà e garanzie! E in questo caso le possibilità sono due: o i negozianti non sanno che c’è una grossa crisi in atto che colpisce tutto il commercio (e la logica rincorsa al prezzo basso) oppure spacciano anche loro paccottiglia, ma meglio presentata.
A questo punto e, seguendo le logiche del commercio, arriviamo a dire che, sulle vie degli acquisti, più movimento di gente c’è, meglio è per tutti e che è logico pensare che il “curioso di banchetti” entrerà, alla fine, nel negozio per avere una qualità (e una gratificazione) superiore. E, naturalmente, viceversa. Il mercato in senso generale è dato da domanda e offerta che è il sano e ovvio meccanismo che spinge produzione e consumi.
Quindi alzi la mano chi nella vita non ha mai comparato prodotti e prezzi, chi non ha setacciato a lungo le proposte migliori per i propri acquisti. E non affrontiamo (ora) il discorso dell’e-commerce che (ad oggi) chiude il cerchio e soddisfa tutte le tasche. Anche lo spettro della chiusura per gli ambulanti e per il loro pubblico viene rimandata al 31.12.2020, dando qualche speranza in più a quei redditi medio bassi che fanno dei mercati il loro polo d’acquisto.
In tutto ciò resta chiaro e imperativo che con certi “commerci” vada usata la mano pesante e che una buona volta e definitivamente vengano messe al bando le merci contraffatte, esposte su teli e lenzuola che rendono, oltretutto, le strade del centro di Roma (ma non solo) vergognose e
impraticabili.
La babilonia degli Outlet: temporary eterni
Nel Tridentino, dicevamo, fiorisce e prospera anche un altro tipo di vendita: quella degli outlet. Tra Babuino, via del Corso e Via di Ripetta se ne contano almeno dieci, molti dei quali – va detto – sono temporary da anni. Senza calcolare gli outlet monomarca o che si riferiscono a negozi ben definiti. Su tutte le strade esaminate, vince alla grande via del Babuino. Una strada vanto della Capitale, fatta e rifatta infinite volte, con affitti da capogiro e in posizione tale da attirare solo i brand del lusso. Un po’ come via della Spiga a Milano, ma, in realtà malata e minata da una babilonia di negozi di ogni ordine e genere.
Si passa in pochi metri da Chanel agli “stracciaroli”. Il turista è confuso, il residente umiliato. Valutate le offerte con occhio attento (e taccuino alla mano) si può notare che solo in tre outlet si vendono capi effettivamente firmati. Ma che, stranamente i brand si ripetono in modo costante: Pinko, Scervino… e già questo fa sorgere diversi e fastidiosi interrogativi.
Per gli outlet più dozzinali invece la sorpresa è un’altra: in tutti c’è la medesima merce. E senza scostamenti di prezzo tra un punto e l’altro. Quindi più che singoli negozi si ha la netta impressione che si tratti di una catena organizzata alla quale confluiscono sistematicamente le tre etichette sopra citate, che fra l’altro hanno i loro monomarca proprio in via del Babuino, e i rifornitori degli ambulanti. Infatti sempre più spesso quello che puoi trovare sulle famigerate bancarelle te lo ritrovi, pari pari, in questi negozi ma con marchi e costi diversi.
Emblematica ad esempio è la cintura in pelle (??) con fiori applicati al costo fisso di 35 Euro. Ce ne sono scaffali pieni in ogni outlet! O le giacche/spolverino in “tessuto tecnico”, identiche sulla bancarella e in negozio. Dieci euro la differenza di prezzo.
Anche senza voler fare paragoni urticanti con l’esercito dei camion bar o dei caldarrostai è logico immaginare, dietro al proliferare dei negozi low, un’unica regia, ottimamente inserita nel sistema commercio, indifferente all’immagine del centro Città e del made in Italy e completamente all’oscuro del significato della parola temporary.