Il caso / Roma caput Tari. Quando la tassa diventa odiosa

Non solo bar, anche ortofrutta e supermercati laziali pagano aliquote superiori alla media nazionale. Ma la spazzatura è sempre lì. A Fiumicino il caso di tasse pagate per un servizio mai ricevuto

La Tari sale, ma i rifiuti sono sempre lì. Che strano paradosso quello romano, ancor prima che italiano. Dove più si paga e più la città è sporca. Succede sì, un po’ tutti i giorni. La tassa che tiene in piedi i conti dell’Ama (il 90% dei ricavi sono ascrivibili alla Tari), continua a crescere a discapito di un servizio inchiodato a standard di qualità piuttosto discutibili per una capitale europea. Nessuna invenzione, lo dice Confcommercio nel suo ultimo osservatorio sulle tasse locali.

Nel Lazio, tanto per rendere l’idea, un supermercato paga un’aliquota media di 8,93 euro, contro una media nazionale di 6,5 euro. Solo in Sicilia, Campania e Toscana si paga di più. Per i mercati ortofrutticoli poi, va ancora peggio: 19 euro di aliquota contro una media Paese di 15 euro. Certo, niente a che vedere con i 25 euro della Toscana, ma viene da chiedersi se il servizio di raccolta e smaltimento sia lo stesso del Lazio.

Entrando nello specifico della ricerca, si scopre comunque che la tassa sui rifiuti pagata da cittadini e imprese è sempre più alta e in continua crescita: nel 2017 è arrivata, complessivamente, a 9,3 miliardi di euro con un incremento di oltre il 70% negli ultimi sette anni nonostante una significativa riduzione nella produzione dei rifiuti. In particolare per le imprese del terziario, si fanno sempre più evidenti distorsioni e divari di costo tra medesime categorie economiche a parità di condizioni e nella stessa provincia. L’inefficienza delle Amministrazioni locali (in media  il 62% dei Comuni capoluogo di provincia registra una spesa superiore rispetto ai propri fabbisogni per la gestione dei rifiuti), poi, costa a cittadini e imprese 1 miliardo l’anno a causa del mancato raggiungimento degli obiettivi comunitari di raccolta differenziata (siamo al 52% contro il 65% fissato a livello europeo).

In molti casi, infine, le imprese pagano costi per un servizio mai erogato (con aggravi di oltre l’80%) o per il mancato riconoscimento della stagionalità delle attività. Nel primo caso, ad esempio a Roma, un distributore di carburante di 300 metri quadri paga 2.667 euro mentre l’importo corretto dovrebbe essere di 446 euro mentre nel secondo caso, un campeggio di 5.000 metri quadri nel Comune di Fiumicino paga 13.136 euro quando per i soli cinque mesi di attività ne dovrebbe pagare 5.473, oppure uno stabilimento balneare di 600 metri quadri, nello stesso Comune laziale, paga 1.037 euro contro i 432 che dovrebbe pagare.

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