A fine marzo è atteso il via libera del Parlamento al nuovo codice degli appalti, un pilastro fondamentale per mettere a terra le risorse ingenti del Pnrr. Il nuovo codice manderà in soffitta quello del 2016 che ha avuto vita breve e travagliata. Oltre 800 le modifiche all’impianto normativo in sei anni di cui una trentina sul solo articolato 36. Inoltre 45 decreti ministeriali e 17 linee guida confezionate dall’Anac.
Perché il nuovo codice dovrebbe dimostrarsi efficiente? Dal punto di vista della filosofia, il vecchio aveva un’impronta impeditiva mentre quello messo a punto da Salvini mostra un orientamento a snellire e facilitare le procedure. Ma, appunto, sono i criteri ispiratori, la realtà è ben diversa. L’Italia da troppo tempo si affanna nella ricerca della norma perfetta perdendo di vista l’importanza della sua applicazione. E’ come disegnare un’auto bellissima dimenticando che per viaggiare servono il motore e la meccanica coerenti e funzionali. Insomma costruire una Ferrari e poi metterci il motore di una Panda.
Obbiettivi ambiziosi: trasparenza, semplificazione, apertura del mercato alla PMI
La prima osservazione è che serve grande equilibrio tra innovazione e conservazione. Il nuovo codice infatti verrà applicato da coloro che hanno usato male quello del 2016 che ha mancato tutti i principali obiettivi: trasparenza, semplificazione, digitalizzazione, apertura del mercato alle piccole e medie imprese.
Gli stessi obiettivi si ripropongono con il nuovo codice e realizzarli sarà tutt’altro che semplice. L’esperienza degli ultimi sei anni ha visto un progressivo deterioramento del mercato degli appalti pubblici, se misurato rispetto ai principi cardine della direttiva europea sugli appalti recepita dall’Italia.
Uno dei principali mercati nazionali (circa 200 miliardi l’anno) che soffre di scarsa trasparenza, difformità di procedure, complessità burocratica.
Alcune evidenze emergono dall’Osservatorio burocrazia realizzato dalla CNA sul sistema degli appalti. Siamo il Paese dei mille campanili e delle 36mila stazioni appaltanti e ognuna decide come svolgere le gare, in totale autonomia. Ad esempio sarebbe stato auspicabile un sistema di monitoraggio centrale per evidenziare le prassi migliori da replicare sul territorio. Così ad esempio un bando del comune di Bologna per la costruzione di alloggi popolari richiede 42 adempimenti, uno simile del comune di Firenze arriva a 150. Un labirinto infernale.
Il 30 per cento dei bandi è realizzato ancora in modalità cartacea
Ma c’è di più. Nell’era delle comunicazioni elettroniche e della blockchain il 30% dei bandi è realizzato in modalità cartacea con il rischio che alcune opere pubbliche di grande valore si sbloccano perché un timbro è apposto male. E soltanto in casi eccezionali l’intero bando (dalla progettazione alla firma del contratto) è digitalizzato.
Ma le principali criticità degli appalti pubblici sono la suddivisione in lotti e la scarsa trasparenza. Soltanto il 18% dei bandi prevede la suddivisione in lotti. Soltanto una stazione appaltante su 5 motiva la mancata suddivisione, tre stazioni appaltanti su 10 garantiscono la piena trasparenza sulle informazioni di gara e ben 4 stazioni appaltanti su 10 non pubblicano alcun dato relativo all’esito delle gare.
La mancata suddivisione in lotti non è solo il mancato rispetto della normativa europea e nazionale, è il principale motivo della dilatazione dei tempi per la realizzazione delle opere pubbliche. Il Consiglio di Stato ha certificato che al crescere del valore dei bandi aumenta il contenzioso che blocca le opere. E negli ultimi anni si registra la tendenza a concentrare i bandi.
La P.A. riesce a spendere ogni anno 20 mld mentre col Pnrr la capacitò di spesa dovrebbe crescere a 60 mld
La pubblica amministrazione ogni anno riesce a spendere 20 miliardi per investimenti e con il Pnrr dovrebbe aumentare la capacità di spesa a oltre 60 miliardi. Tra le ipotesi che stanno circolando c’è quella di procedere con maxi-lotti così da impegnare le risorse disponibili. Ma il vecchio adagio la gatta frettolosa fece i gattini ciechi è quanto mai attuale. Non è sufficiente fare i bandi, realizzare le gare e firmare i contratti. Le opere finanziate dalle risorse del Pnrr devono essere fruibili entro la fine del 2026.
E’ quindi evidente che sarebbe bene resistere alla tentazione di procedere con i maxi-lotti. Anche perché la progressiva crescita degli importi medi dei bandi è inversamente proporzionale alla platea delle imprese che vi può accedere. Per partecipare a un bando da 5 milioni, l’impresa deve avere un fatturato di almeno 10 milioni e il 94% delle aziende italiane è sotto quella soglia. Il risultato è che oggi l’87% dei bandi pubblici è di fatto chiuso alle piccole e medie imprese.
Il nuovo codice inoltre prevede altri due elementi che possono provocare distorsioni del mercato. L’aumento degli importi per l’affidamento diretto a 500mila euro non è sinonimo di maggiore efficienza per realizzare le opere. Il subappalto a cascata generalizzato rischia di alimentare la platea di operatori che non sono imprese che realizzano i lavori ma che operano di fatto come general contractor.
Un ultimo punto di domanda riguarda l’iter parlamentare del nuovo codice. Sarà difficile che camera e Senato rinuncino ad appesantire la nuova normativa, magari con disposizioni che poco o nulla hanno a che vedere con la gestione degli appalti pubblici.