Concorrenza: spiagge, taxi e l’allergia italica 

Le oltre 30mila imprese del settore balneare hanno alzato le barricate all’applicazione della Direttiva Bolkestein,  trovando sponde trasversali tra le forze politiche

Storicamente l’Italia ha sempre mostrato una certa allergia rispetto alla cultura della concorrenza. La nostra legge antitrust è del 1990, lo Sherman Act degli Stati Uniti è stato promulgato un secolo prima e la vittoria del parlamento inglese sul sovrano per mettere fine al Monopolio di Stato risale addirittura alla metà del seicento.

La scarsa dimestichezza con i principi della concorrenza e della tutela del libero mercato produce anche una certa confusione a livello politico. La prova più recente sono le questioni legate alle concessioni balneari e ai taxi all’interno della legge annuale sulla concorrenza. Una legge entrata in vigore nel 2009 per monitorare e correggere costantemente le norme. Purtroppo solo nel 2017 e con enorme fatica il Parlamento è riuscito a varare l’aggiornamento annuale.

Le concessioni balneari sono un bene demaniale e i taxi rientrano in un servizio pubblico essenziale 

Se spiagge e taxi monopolizzano il dibattito sulla concorrenza i conti non tornano con riferimento alla forma e alla sostanza. In punta di diritto le concessioni balneari ed i taxi non hanno nulla a che vedere con la concorrenza. Per le prime la questione sono le modalità di assegnazione di un bene demaniale e la capacità dello Stato (e quindi del contribuente) di incassare un corrispettivo equo. I taxi invece, su disposizione europea recepita dall’Italia, sono un servizio pubblico essenziale e pertanto esonerato dalle norme sulle liberalizzazioni.

La questione spiagge da anni è senza una soluzione certa e definitiva. Il punto fermo è la direttiva Bolkestein in base alla quale le concessioni pubbliche devono avere un termine ed essere assegnate attraverso offerte competitive. Le oltre 30mila imprese del settore hanno alzato le barricate trovando sponde trasversali tra le forze politiche e l’emendamento approvato all’unanimità in Consiglio dei ministri per l’introduzione delle gare a partire dal 2024 dovrà attraversare il mare tempestoso di Camera e Senato con esito non scontato. Inoltre la norma approvata ha l’obiettivo di trovare un precario equilibrio tra tutela delle piccole attività e l’esigenza di valorizzare le spiagge per le quali lo Stato incassa la miseria di 105 milioni l’anno, in media ogni stabilimento versa all’erario circa 3mila euro per la concessione.

Se l’intento del governo è quello di rispettare il principio delle assegnazioni competitive limitandone però gli effetti sugli attuali gestori il rischio è di generare ulteriore confusione. La premessa della norma è una contraddizione economica: assegnazione a gara indicando investimenti e tariffe per abbassare il costo alla clientela. Senza considerare chi sarà a controllare la realizzazione degli investimenti indicati e il rispetto delle tariffe annunciate.

L’emendamento del governo solleva numerosi interrogativi

L’emendamento approvato dal Governo disegna un mondo fantastico, prevede criteri e condizioni per salvaguardare il modello ma non sembra fare i conti con la cronica incapacità della pubblica amministrazione di effettuare controlli e gestire procedure complesse. Ad esempio è immaginabile effettuare contemporaneamente alcune decine di migliaia di gare? Chi e come stabilirà la durata delle concessioni dal momento che saranno variabili sulla base del tempo necessario ad assicurare l’ammortamento degli investimenti? Chi e come valuterà gli investimenti da indennizzare del concessionario uscente? Come evitare le concessioni multiple? Quali saranno i criteri per definire l’estensione dei lotti considerando le profonde differenze tra la riviera romagnola e la costiera amalfitana? Cosa accade se la mappatura delle spiagge in concessione non sarà conclusa entro quest’anno?

Sullo sfondo qualunque sia la norma dovrà fare i conti con i pronunciamenti della magistratura e relativo clima di incertezza. E’ sufficiente ricordare, ad esempio, che il Consiglio di Stato a inizio novembre nell’adunanza plenaria si è espresso con chiarezza a favore delle gare competitive ignorando la questione degli investimenti effettuati dai concessionari. Due settimane fa invece la VI Sezione del Consiglio di Stato si è pronunciata in netta controtendenza decidendo che la cosiddetta Direttiva Servizi non è applicabile alle concessioni avviate prima del 2009.

Sproporzione fra la gare per le concessioni delle spiagge e rendite e  monopoli ancora presenti nel sistema Italia

Tuttavia c’è una evidente sproporzione tra il tema delle concessioni delle spiagge e i numerosi ambiti in cui rendite e monopoli continuano a esistere. Sorprende che nella legge sulla concorrenza non ci sia alcun riferimento al tema delle aziende pubbliche, all’esercito delle municipalizzate che gestiscono in assoluto monopolio servizi essenziali per i cittadini. Non si comprende perché le Poste debbano detenere ancora il monopolio del recapito o perché le banche possano modificare unilateralmente le condizioni contrattuali dei correntisti. Manca una seria riforma del codice degli appalti considerando che il 97% delle imprese italiane può accedere soltanto al 15% delle gare pubbliche.

Insomma, lo Stato ha il dovere di valorizzare il patrimonio pubblico, quindi anche le spiagge, e di promuovere la concorrenza aprendo i mercati. Ma troppo spesso alle regole del gioco preferisce il gioco delle regole.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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