Il fallimento della Silicon Valley Bank e lo scossone sui mercati azionari hanno fatto tornare alla mente i giorni drammatici del settembre del 2008, quando il crack di Lehman Brothers fu la miccia della più grave crisi finanziaria della storia. Governi e banche centrali hanno immediatamente lanciato messaggi rassicuranti. E’ un fenomeno isolato, non ci sono rischi di contagio.
Probabilmente è così. Il crack della Silicon Valley Bank risiede in un modello di business non sostenibile, così come le difficoltà del Credit Suisse in Europa sono piuttosto antiche e non c’è alcuna relazione con l’altra sponda dell’Atlantico. E tuttavia si scorgono alcune criticità che vanno rimosse a partire da un sistema di vigilanza da rivedere proprio sull’esperienza della crisi globale del 2008. Più precisamente negli ultimi anni, in particolare negli Stati Uniti, è stato allentato il livello di sicurezza sulla base del principio che regole troppo rigide penalizzano il ciclo economico.
Ma il contesto di riferimento non dipende solo dal quadro regolatorio, piuttosto da un profondo cambiamento del paradigma che in breve tempo ha evidenziato tutti i limiti di consolidate convinzioni e teorie economiche.
La politica monetaria troppo accomodante ha lasciato il posto a una eccessiva stretta creditizia
Dopo le restrizioni a causa della pandemia, l’economia globale è ripartita con forte slancio provocando forti tensioni sul sistema di approvvigionamento delle materie prime e dei semilavorati e di conseguenza sui prezzi. A loro volta i prezzi energetici sono schizzati in alto con la guerra in Ucraina. Nel giro di poco più di un anno i riferimenti macroeconomici sono completamente cambiati. Dopo 15 anni di tassi di interesse a zero, il costo del denaro ha ripreso a salire per effetto del cambiamento di rotta delle principali banche centrali. L’inflazione a doppia cifra non si vedeva da decenni e la politica monetaria, dalla Federal Reserve alla BCE, ha invertito radicalmente rotta. La politica accomodante ultradecennale a tassi zero ha lasciato il posto a una stretta creditizia confermata negli ultimi giorni dai nuovi rialzi dei tassi decisi dalle due principali banche centrali.
Gli esperti come sempre offrono analisi contrapposte. D’altra parte falchi e colombe sono una costante della politica monetaria così come i rigoristi e gli allergici ai vincoli lo sono della politica economica.
Alcuni sostengono che le banche centrali si sono mosse in ritardo per combattere l’inflazione, altri criticano la stretta monetaria in quanto rischia di spingere l’economia globale verso la recessione.
Ci sono tuttavia alcuni elementi oggettivi. Un lungo periodo a tassi zero ha generato una marea di liquidità e gli eccessi provocano squilibri. I tassi a zero obbligano molti investitori, tra cui in particolare i fondi pensione, alla ricerca di rendimenti accettabili dovendo pagare gli assegni della pensione ai propri iscritti. E’ evidente che l’inflazione al 10% obbliga un cambio di rotta monetario considerato che il contenimento dei prezzi è un processo mai troppo rapido.
Rivedere gli statuti delle banche centrali dovrebbe essere tra le priorità
Insomma le banche centrali hanno reagito seguendo i manuali e le teorie consolidate, trascurando, forse che i due terzi dell’inflazione sono causati dall’impennata dei costi energetici. Ma le banche centrali operano seguendo uno statuto che le obbliga a perseguire la stabilità dei prezzi nel medio e lungo termine. E’ come il giudice che applica la legge. Una norma può essere ritenuta sbagliata dalla comunità ma fino a quando è in vigore il giudice è obbligato ad applicarla.
Rivedere gli statuti delle banche centrali dovrebbe essere tra le priorità, dal momento che alla Fed come alla BCE da tempo non si chiede più di essere i guardiani dell’inflazione, ma forza motrice per la crescita dell’economia e dell’occupazione.
Altro elemento riguarda il contesto economico che è profondamente cambiato a causa degli shock e dalla transizione energetica. La pandemia ha evidenziato i limiti della globalizzazione e della allocazione delle risorse (gli Stati Uniti hanno scoperto di non produrre in casa nemmeno un antibiotico, l’Europa dei vincoli e senza politica estera ha toccato con mano cosa significa la non indipendenza energetica).
E’ in atto un ripensamento complessivo della struttura economica e produttiva. La grande innovazione arriva dalle start up, il processo di decarbonizzazione sta orientando gli investimenti e modificando i pilastri economici. A titolo di esempio, i tanto vituperati bonus all’edilizia non solo hanno trainato la crescita del Pil ma hanno consentito all’Italia, lo hanno certificato Istat e BCE, di innalzare il potenziale di crescita, vale a dire la capacità del motore si è rafforzata.
E’ paradossale che la BCE e la Federal Reserve da alcuni anni producano analisi e ricerche ammonendo che ogni anno di ritardo nella transizione green farà ne farà aumentare i costi in misura rilevante. La decarbonizzazione non è a costo zero ma non farla avrà costi di gran lunga superiori. Al tempo stesso le politiche monetarie hanno radici in un passato che non esiste più. Maturare la consapevolezza che la matrice è cambiata è quanto mai urgente.