Prudenza, anche eccessiva, continuità, fin troppa. Sono le coordinate per la navigazione del governo, saldamente sulla rotta impostata dal precedente. L’approvazione del Documento di economia e finanza e le nomine delle partecipate certificano che la priorità del tandem Meloni-Giorgetti è cercare di essere visti come affidabili, responsabili. Nel solco delle tradizioni politiche italiane ispirate alla moderazione. Un’equazione che è stata spazzata via dalle quattro crisi che il Paese ha vissuto dal 2008.
La discontinuità promessa è sparita già nella fase di formazione dell’esecutivo. Anche l’area culturale di riferimento ha deposto la voglia di cambiamento. Nanni Moretti pungolava Massimo D’Alema premier a dire qualcosa di sinistra, oggi nessuno chiede a Giorgia Meloni di dire qualcosa di destra, al netto di slogan nostalgici di cui sembra che solo il presidente del Senato Ignazio La Russia sia inflessibile portatore.
La ricerca disperata di accreditarsi presso le cancellerie europee, le istituzioni sovranazionali e i mercati finanziari paradossalmente alimenta decisioni e orientamenti da parte del governo spesso contraddittori, incoerenti. Il gradimento presso l’opinione pubblica è ancora elevato, la premier dispone ancora del tesoretto che le consente di scaricare sui predecessori i problemi e le difficoltà che oggi cerca di affrontare. Vale per i dubbi sulla capacità di realizzare il Pnrr, sul funzionamento del fisco e della sanità, sulla scuola, sull’immigrazione. Ma è una dote che non può sostenere la maggioranza per l’intera legislatura. I successi e le rapide cadute di Renzi, Salvini e M5S sono lì a testimoniare quanto il consenso politico sia fluttuante.
Meloni e Giorgetti cercano di imitare Draghi senza averne lo standing e la credibilità, trascurando che l’ex presidente della BCE guidava un governo tecnico di larghe intese, mentre dalle urne di settembre è uscita l’indicazione netta di un governo politico dopo un decennio.
Nel segno della continuità e delle peggiori tradizioni politiche l’accordo sulle nomine delle principali aziende a controllo pubblico. Oltre a piazzare alcuni fedelissimi dei tre partiti della maggioranza rimasti senza incarico come Alessandro Zehenter (Forza Italia), Seganti e Altieri (Lega), Macrì (Fdi) il comun denominatore è stata la scelta di persone con una salda rete di relazioni internazionali. Così si spiega la nomina di Cattaneo e Scaroni all’Enel, la conferma di Descalzi all’Eni ( diventato gran consigliere della Meloni) la nomina di Silvia Rovere alle Poste. Le conferma di alcuni manager indicano la carenza di classe dirigente tra le fila del partito della premier, ma soprattutto la volontà di non rompere equilibri, di non muoversi come un elefante all’interno di una vetreria.
Il Documento di economia e finanza è il suggello del continuismo. Nella premessa firmata dal ministro dell’economia Giorgetti ricorrono spesso i termini prudenza, cautela e affidabilità.
L’economia italiana non scivolerà nella recessione nel corso dell’anno, ma non è grazie alle politiche del governo quanto alla inaspettata vitalità dell’economia reale, al dinamismo di settori come costruzioni e turismo.
Ma il ministro Giorgetti cade anche in contraddizione. Promette la profonda revisione dei bonus all’edilizia, cerca di boicottare la mobilità elettrica, assiste come spettatore allo stallo sulla rete Tlc e ai ritardi sul digitale, ma assicura che il tasso di crescita del Pil nei prossimi anni si rafforzerà grazie all’innovazione e agli investimenti sulla transizione ecologica e digitale e la mobilità sostenibile.
Il Def ci consegna un tesoretto da 3 miliardi che sarà impiegato per tagliare il cuneo fiscale, ma a ben vedere i numeri la dote per l’anno in corso è più robusta. La riclassificazione dei crediti d’imposta per il Superbonus ha comportato che il governo deve mettere sul 2021 e 2022 l’intera spesa invece di spalmarla su cinque annualità. Tutto ciò però comporta che il fabbisogno 2023 sarà inferiore di circa 14 miliardi, in pratica circa lo 0,7% che sarà a disposizione del Governo. Anche sui sussidi l’esecutivo Meloni ha dato una stretta. Contro il caro-energia la spesa sarà intorno ai 15 miliardi, ben distante dai circa 60 miliardi dell’anno scorso. Di contro aumenterà la spesa pensionistica e per il 2024 è stato annunciato un taglio delle tasse da 4 miliardi.
Insomma l’ultimo Def non mostra novità politiche e discontinuità. Potrebbe essere firmato da uno qualsiasi degli ultimi sette ministri dell’economia. In fondo appena cinque anni orsono M5S, Lega e FdI erano schierati per uscire dall’euro, promettevano sfracelli in Europa contro i tecnocrati e minacciavano blocchi navali e stato di polizia contro gli immigrati clandestini. Oggi davanti agli sbarchi fuori controllo il governo proclama lo stato di emergenza, chiede risorse ai tecnocrati a Bruxelles, si scaglia contro le Ong e promette pene durissime per gli scafisti. Non sorprendono gli oppositori che vanno al governo, sono italiani!