Il governo che si autodefinisce “produttivista” ha confezionato una legge di bilancio che mobilita quasi 40 miliardi di euro, ma al netto dei sostegni contro il caro-bollette (19 miliardi e non i 23) le risorse destinate a sostenere gli investimenti e rafforzare la produttività sono poche. Circa 20 miliardi di euro di spesa corrente nonché la conferma di una composizione pulviscolare della legge di bilancio. Circa l’80% dei capitoli di spesa attiva fondi inferiori ai 50 milioni di euro. Su lavoro e pensioni molti interventi a modestissimo impatto ad eccezione del taglio del cuneo fiscale che impegna quasi 5 miliardi, rinnovando la misura introdotta dal precedente governo Draghi.
Al tempo stesso la manovra prevede anche tagli alla spesa per oltre 7 miliardi, e la metà è assicurata dalla revisione del meccanismo di indicizzazione delle pensioni. In totale su lavoro e politiche sociali il trasferimento netto di risorse è pari a 3 miliardi (7,6 miliardi di maggiori spese e 4,6 miliardi di maggiori entrate per lo Stato).
Gli sbandierati interventi su famiglia e disabilità si traducono in 500 milioni, per sostenere la crescita e gli investimenti il totale delle risorse messe in campo dalla manovra sfiora 1,5 miliardi.
Insomma su lavoro e welfare l’intonazione della manovra è piuttosto restrittiva, contraddicendo titoli e annunci dell’esecutivo e della maggioranza. Tuttavia non può essere la legge di bilancio, anche per i tempi strettissimi, a delineare interventi più strutturali, ma è evidente che su temi ben rilevanti come il lavoro e la previdenza il governo si sta muovendo in perfetta continuità con i precedenti.
Qualche deroga, misure spot e parziali, rimandando a un prossimo futuro le attese riforme strutturali. Pensioni e lavoro continuano a essere due cantieri aperti e senza fine. Dalla riforma Fornero si contano almeno otto interventi correttivi fino alle famose quote (100, 102 e ora 103) che non fanno altro che creare nuove coorti di pensionandi che alterano l’equità generazionale.
La capacità di trovare lavoro non dipende dalla possibilità di trovarlo Discorso identico per il lavoro, dalla riforma Poletti con il jobs act l’assetto è in perenne cambiamento e alimenta una notevole confusione tra le politiche passive (sostegni a chi perde il lavoro) e quelle attive. La sforbiciata sul reddito di cittadinanza è la dimostrazione plastica che il collegamento non può funzionare in quanto l’occupabilità non dipende dalla possibilità di trovare lavoro.
Orientamenti certamente diversi rispetto alle precedenti maggioranze, ma la sostanza non cambia. Anche il governo Meloni ritiene che lavoro e crescita si possono ottenere per decreto. Basta una norma o un articolo di legge per stabilire chi può lavorare e chi no, addirittura la legge può stabilire le retribuzioni minime, definire la soglia di povertà, soddisfare la domanda di competenze difficile da reperire.
Il mercato del lavoro piuttosto necessita di un assetto normativo coerente e soprattutto stabile per consentire alle dinamiche del mercato di poter sviluppare le proprie energie. La stella polare per interventi di riforma non può essere la semplice ricerca di consenso, o peggio ancora misure spot ad elevata carica simbolica come quota 103 o i tagli al reddito di cittadinanza. L’andamento demografico, l’aspettativa di vita, l’innovazione, la produttività sono i veri riferimenti per orientare le strategie sul lavoro e sul sistema di welfare.
Da anni si parla di potenziare gli istituti professionali, ma manca un progetto
Timidamente la ministra del lavoro Calderone ha indicato l’esigenza di mettersi alle spalle la fase delle deroghe e delle mezze riforme. Facile a dirsi, molto più complesso disegnare strategie che mostreranno risultati nel medio e lungo termine. La carenza di personale specializzato, la questione dei bassi salari solo in apparenza sono temi connessi. Mancano molte professionalità perché è stata cancellata la formazione e non per il reddito di cittadinanza. Da anni si parla di potenziare gli istituti professionali ma manca un progetto. Come saranno impegnati i 500 milioni deliberati dal ministero? Mistero. L’Italia conta meno di 20mila diplomati l’anno dagli ITS rispetto a una domanda di quasi 100mila unità. Tanto per fare un confronto, la Germania ogni anno forma 500mila tecnici.
Le basse retribuzioni riflettono i modesti progressi sulla produttività, che a sua volta è la diretta conseguenza di investimenti scarsi, sia da parte delle imprese, ma soprattutto da parte dello Stato in particolare sulle infrastrutture materiali e immateriali. Anche l’analisi sulle cause continua a offrire letture erronee. La Germania non ha imposto l’austerità al club dell’euro ma ha costretto i partner con forte propensione all’export, in particolare l’Italia, a realizzare rilevanti svalutazioni nazionali. In 20 anni il Pil pro-capite in Germania è aumentato del 38%, ma i redditi pro-capite soltanto del 22%. Quel delta di 16 punti è andato a remunerazione del capitale investito e a rafforzare la competitività. In Italia il Pil pro-capite nello stesso periodo è aumentato di appena il 4%. Per restare competitive sui mercati esteri, le 190mila imprese del Made in Italy hanno dovuto comprimere i costi e quindi le retribuzioni.
Insomma non è polemizzando sui camerieri che non si trovano o reintroducendo i voucher che arriveranno le risposte ai mali del sistema Italia.