Governo Meloni: economia e riforme, la strada è (quasi) obbligata

Il programma avviato da Mario Draghi potrebbe trovare un elemento di continuità nell’azione del nuovo esecutivo,  che ha di fronte una fase emergenziale 

Il tanto vituperato Rosatellum ha fatto uscire dalle urne una maggioranza chiara, a differenza di quanto avvenne nel 2013 e nel 2018 quando servirono diverse settimane per veder nascere un governo di larghe intese (dal Pd a Forza Italia) e poi la maggioranza anomala giallo-verde.

Giorgia Meloni torna al governo dopo 14 anni (la futura premier era ministra nell’ultimo governo Berlusconi) ma oggi lo fa prendendosi le chiavi di Palazzo Chigi e con Fdi primo partito nel paese. La novità è evidente, coerente con l’orientamento degli elettori da qualche anno di premiare chi non è al potere e promette radicali cambiamenti. E’ stato così con Renzi e poi con Salvini e M5S.

La discontinuità sarà la matrice della nuova maggioranza, più facile a dirsi che a farsi. Di Maio e Salvini nel 2018 promettevano il referendum per uscire dall’euro e la revisione delle alleanze internazionali, argomenti non più in discussione a dimostrazione che l’esercizio del potere richiede massicce dosi di real politick.

Per fronteggiare il caro energia necessari almeno 60 miliardi

In effetti Giorgia Meloni ha mostrato grande prudenza sui temi dell’economia con una certa sintonia con Mario Draghi in particolare nello stoppare le richieste di Lega e M5S sullo scostamento di bilancio. I nomi che circolano per la casella di ministro dell’economia testimoniano che la premier in pectore non intende procedere ad avventurismi dall’esito incerto, tanto più in una fase emergenziale.

La politica monetaria restrittiva della BCE per raffreddare l’inflazione sta provocando la risalita dei tassi di interesse. Il Btp decennale oggi offre un rendimento del 4,70% mentre a settembre dell’anno scorso era allo 0,70%. Il Governo Draghi stima una crescita del costo del debito superiore al 3%. Le spinte inflazionistiche faranno scattare un consistente aumento della spesa pensionistica, la Nota di aggiornamento (Nadef) del Governo prevede un incremento del 7,9%. Soltanto questi due capitoli si tradurranno in maggiori spese per oltre 30 miliardi, ai quali aggiungere le risorse per nuovi sussidi per fronteggiare il caro-energia. Draghi lascia un tesoretto da circa 20 miliardi e conti pubblici in miglioramento ma per affrontare la burrasca ne serviranno almeno il triplo.

Un dialogo costruttivo con Bruxelles e le cancellerie di Berlino e Parigi

È assai probabile che cambieranno anche i toni nei confronti dell’Europa. D’altra parte da Bruxelles arriveranno 220 miliardi per il Recovery Fund e 35 per il programma Sure per finanziare la cassa integrazione mentre la BCE ha in pancia 230 miliardi di titoli di Stato della Repubblica.

La dialettica con Bruxelles riguarderà i dossier dell’immigrazione, la cessione di sovranità ma in ogni caso il Governo Meloni dovrà ricercare un dialogo costruttivo con le cancellerie di Berlino e Parigi non solo sul sostegno all’Ucraina ma soprattutto sulla riforma della governance europea a partire dalla revisione del patto di stabilità.

Un tale orientamento avrà il pieno sostegno dell’alleato Berlusconi, molto meno dalla Lega e si potrà assistere a una inversione di ruoli con la Meloni moderata e Salvini (fino a quando sarà segretario) estremista.

La questione del potere delle Autority e dello Stato imprenditore 

Ci sono altre due questioni che non hanno avuto particolare enfasi nella campagna elettorale ma che riguardano il potere vero. La prima è l’approccio con il tema della concorrenza e del libero mercato e nel centrodestra potrebbe tornare la tentazione di ridimensionare il potere delle autorità di regolazione a partire dall’Antitrust. La seconda è la presenza dello Stato in economia. La Meloni non si è messa di traverso sulla procedura di vendita di Ita ma a breve c’è il dossier delicato di Mps con un aumento di capitale da 2,5 miliardi e una rapida cessione nel rispetto dell’accordo con BCE e Commissione europea. Sarà questo il primo banco di prova delle relazioni con Bruxelles. Ma ci sono anche la rete unica e il riassetto di Tim e il futuro dell’ex Ilva. Lo Stato imprenditorie non è un peccato mortale. Il problema è quando lo Stato vuole cimentarsi con business difficili e complicati.

Riforma fiscale, federalismo e presidenzialismo nodi per la coalizione 

L’interrogativo politico riguarda la capacità di Giorgia Meloni di tenere insieme una coalizione variegata, abile nel formare cartelli elettorali ma che dal ’94 in poi è spesso naufragata nella gestione del Paese, nonostante le capacità e le risorse finanziarie di Silvio Berlusconi (soltanto nel 2001-2006 il centrodestra concluse la legislatura).

Difficile immaginare una riforma fiscale nel senso della flat tax, ancor più arduo avanzare sul federalismo. I punti in comune sono l’abolizione del reddito di cittadinanza (operazione comunque complessa senza proporre uno strumento alternativo), il contrasto all’immigrazione clandestina anche se persino dal profondo nord molte imprese lamentano l’assenza di personale. Da verificare inoltre le riforme costituzionali in chiave di presidenzialismo. L’elezione diretta del capo dello stato è l’aspetto più semplice, molto più delicato disegnarne i nuovi poteri. Lega e gran parte di quel che resta di FI sono piuttosto tiepidi.

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