Governo: su fisco e reddito di cittadinanza due riforme ‘’pasticciate’’

La “Mia” che sostituirà il reddito di cittadinanza è solo una forte riduzione delle risorse. La riforma fiscale ripristina vecchi strumenti, ma non indica una idea coerente del modello di imposizione.

Il Governo Meloni si appresta a varare due importanti riforme, il fisco e il nuovo reddito di cittadinanza. Due dossier ben distinti, ma legati dall’approccio e dagli obiettivi politici non molto chiari.

La “Mia” (misura di inclusione attiva) sostituirà il reddito di cittadinanza e l’unica evidenza è una forte riduzione delle risorse. La riforma fiscale invece al di là dei proclami si limita a un riordino delle aliquote legali, ripristina strumenti dimenticati che erano stati un clamoroso insuccesso, mentre non indica una idea chiara e coerente del modello di imposizione.

Le indicazioni del Parlamento negli ultimi anni sono molto chiare. Si chiede alla riforma del fisco di completare l’adozione del modello duale (tassazione dei redditi da lavoro e da capitale) con la contestuale riduzione delle aliquote medie e marginali effettive per incentivare l’offerta di lavoro. Tale impostazione era stata recepita fedelmente dal ddl delega del Governo Draghi, che il nuovo Parlamento ha fatto decadere. In sostanza una riforma efficiente del fisco dovrebbe prevedere una transizione verso l’adozione della medesima aliquota proporzionale per i redditi da capitale e una tassazione progressiva sugli altri. L’obiettivo è un trattamento uniforme degli impieghi da capitale (comprendendo anche lavoro autonomo e impresa individuale) che comporta un graduale azzeramento di tutti i regimi agevolativi come la flat tax, la cedolare secca sugli affitti, ecc.

Sulla tassazione d’impresa torna la riedizione del concordato preventivo biennale già sperimentato da Berlusconi-Tremonti nel 2003-2004

Il progetto del nuovo Governo invece si muove in direzione completamente opposta. Mira al riordino degli scaglioni quale primo passo per approdare alla flat tax e quindi al rovesciamento del sistema duale (progressività sui redditi da capitale e proporzionale sui redditi da lavoro). La questione non è più o meno gettito bensì la necessità di mettere ordine a un sistema di tassazione che ha smarrito completamente i pilastri fondamentali: razionalità e universalità. Il livello di tassazione ormai non dipende dal livello di reddito ma dalla natura del contribuente (lavoro dipendente, autonomo, pensionato).

Sulla tassazione d’impresa torna la riedizione del concordato preventivo biennale già sperimentato da Berlusconi-Tremonti nel 2003-2004 e che è stato un clamoroso flop. In sostanza le imprese dovevano dichiarare in anticipo livelli di ricavi e utili, in aumento rispetto al biennio precedente ottenendo in cambio una tassazione agevolata. La riedizione del meccanismo pone due domande: perché dichiarare livelli di redditi e ricavi superiori a quelli promessi, anche se tassati in modo agevolato, se l’adesione alla misura prevede l’esclusione dalle verifiche? Perché aderire alla misura quando non si ha l’assoluta certezza di garantire quanto promesso?

Hanno aderito soltanto le imprese (meno di 100mila) che avevano la certezza di garantire quei livelli di reddito e ricavi. Di fatto un condono preventivo che la nuova riforma tende a riproporre.

Al contrario si dovrebbe definire un sistema di tassazione delle imprese che abbia l’obiettivo di premiare l’efficienza e la fedeltà fiscale in modo automatico all’aumentare del reddito dichiarato. Per fare questo è necessario prevedere a regime un sistema premiale che stimoli e incentivi l’efficienza produttiva delle imprese e del lavoro autonomo, legata alle performance di reddito incrementale dichiarato rispetto ad una soglia minima di reddito, riferibile alle potenzialità produttive dell’impresa e da determinarsi in via presuntiva. Un sistema che 20 anni fa non poteva essere messo in piedi ma oggi potrebbe fare affidamento sugli ISA, il superamento degli studi di settore.

I percettori del Rdc sono 1,1 milioni mentre secondo i dati Istat le famiglie in povertà assoluta sono 1,9 milioni

Sul reddito di cittadinanza la riforma è ancor più pasticciata. La legge di bilancio ha già disposto il giro di vite accorciando la durata del beneficio. Il progetto della ministra Calderone prevede un’ulteriore stretta intervenendo anche sulla dimensione dell’assegno. La filosofia è che riducendo l’importo (soprattutto nei confronti dei single) i 400mila occupabili che oggi percepiscono il Rdc si riverseranno sul mercato del lavoro. Fosse così allora sarebbe più efficace cancellare il sostegno alle persone occupabili.

Manca prima di tutto una analisi sul funzionamento del reddito. I percettori sono 1,1 milioni mentre secondo i dati Istat le famiglie in povertà assoluta sono 1,9 milioni. Dunque ci sono 800mila nuclei che non sono raggiunti, ma la politica non dà risposte sul punto.

Andrebbe poi ripensato il rapporto tra reddito di cittadinanza (o la Mia) e il lavoro. Se un percettore inizia a lavorare il beneficio viene tagliato di 80 centesimi per ogni euro guadagnato con l’occupazione. In pratica è come se quel reddito fosse tassato con una aliquota molto elevata ignorando che in Italia esistono tantissimi posti di lavoro con salari molto bassi. Un sussidio ben disegnato dovrebbe premiare chi lavora e non penalizzarlo. Una vera riforma dovrebbe puntare a garantire alle persone occupate redditi dignitosi.

 

 

 

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