Il governo sorpassa a sinistra i sindacati e il contribuente paga gli aumenti in busta paga

Da nove anni assistiamo a una continua rincorsa tra i vari governi a ridurre le tasse. Una specie di competizione sportiva, rispetto alla quale sembra impossibile sottrarsi.

Al netto delle rituali polemiche, il decreto lavoro approvato dal governo evidenzia una filosofia che caratterizza la politica italiana da qualche anno. Precisamente dal 2014, quando Matteo Renzi appena arrivato a Palazzo Chigi mise i famosi 80 euro al mese nelle tasche dei lavoratori dipendenti con reddito annuo fino a 26mila euro.

Da nove anni quindi assistiamo a una continua rincorsa tra i vari governi a ridurre le tasse. Una specie di competizione sportiva, rispetto alla quale sembra impossibile sottrarsi. Tagliare il peso del fisco specialmente sui redditi medi e bassi dovrebbe essere un orizzonte da perseguire. L’anomalia italiana è che la gara a chi taglia di più è svincolata da qualsiasi idea di politica economica, dall’assenza di una visione strategica e di un programma coerente.

Con l’esplosione della pandemia si è fatto ricorso, giustamente, al debito pubblico per alleviare la caduta dei redditi di milioni di persone. Il conto supera i 170 miliardi tra sussidi e incentivi e ormai un taglio delle tasse da 10 miliardi è considerato un intervento normale.

Il dinamismo degli ultimi governi a ridurre il peso del fisco sulle buste paga evidenzia inoltre la centralità della politica nella definizione delle politiche dei redditi. Tutte le forze politiche sono convinte che sia sufficiente un decreto per stabilire i livelli retributivi e anche per far crescere l’occupazione.

Insomma si è affermato un approccio assai curioso. Anche se l’Italia resta un’economia nominalmente di libero mercato, la politica ritiene di affermare il proprio primato, nonché alimentare il consenso, sostituendosi alle forze che animano il mercato e cioè capitale e lavoro. Un orientamento che si è rafforzato grazie anche alla timidezza delle forze sociali, alla loro incapacità di svolgere la loro funzione principale.

Il risultato è che dal 2014 gran parte degli aumenti retributivi dei lavoratori italiani non sono il frutto della contrattazione tra imprese e sindacati, bensì l’effetto di manovre del governo e del parlamento. Restando agli ultimi due anni, il governo Draghi ha realizzato una riduzione di imposte sui redditi intorno ai 10 miliardi tra taglio del cuneo, riduzione Irap e rimodulazione Irpef. Altri 10 miliardi con il governo Meloni anche se concentrati quasi esclusivamente sulla defiscalizzazione degli oneri contributivi. Il taglio netto di cui beneficiano i lavoratori dipendenti è circa 6 miliardi ai quali vanno sommati i 10 miliardi l’anno per assicurare 100 euro netti al mese (gli 80 di Renzi e i 20 del Conte 2) in busta paga.

Per moltissimi italiani si tratta di risorse preziose, dal momento che la vera emergenza è rappresentata da salari fermi ormai da oltre 20 anni. Un contributo dello Stato è determinante specialmente in una fase di alta inflazione ma non può essere la soluzione. Anche perché il taglio delle tasse è su base universale, non è in alcun modo correlato alla contrattazione tra imprese e sindacati. Manca qualsiasi stimolo a innalzare la produttività del tessuto economico. Sarebbe stato più efficace vincolare il taglio delle tasse agli aumenti salariali riconosciuti dalle imprese ai propri dipendenti. Detassare i redditi incrementali obbliga le aziende ad essere più efficienti e più produttive. E’ curioso che la tassazione agevolata per i redditi incrementali sia invece prevista nella delega fiscale ma solo per i redditi d’impresa.

Il problema è che la politica produce norme, eroga sussidi e incentivi senza un’attenta analisi sulle dinamiche mutevoli del mercato, cercando di inseguire tendenze ma sempre in ritardo. I tempi dell’economia diventano sempre più incompatibili con quelli della politica.

Il dramma del mercato del lavoro italiano oggi non è la precarietà ma retribuzioni basse. Negli ultimi 15 mesi sono stati creati 440mila nuovi posti di lavoro, quasi tutti con contratti a tempo indeterminato, mentre il tempo determinato è rimasto stabile e i contratti di apprendistato accusano una nuova flessione. Una fotografia assolutamente coerente rispetto alla carenza di personale. Pertanto è incomprensibile la polemica sulla revisione delle causali per i contratti a termine. Tanto più che solo il 18% dei contratti a termine supera i 12 mesi mentre la media europea è del 29%. Quasi il 60% dei contratti a termine ha una durata in Italia tra 3 e 6 mesi.

Anche l’ultimo decreto del governo Meloni non ha saputo resistere all’introduzione di nuovi incentivi per le assunzioni dei giovani, mentre lascia perplessi l’estensione dei contratti di apprendistato anche agli over 40 ma solo per il settore turistico e termale.

Gli sgravi alle assunzioni sono una forma di incentivo altamente regressivo. L’impresa non assume per beneficiare di un bonus sul costo del lavoro a termine. L’esperienza della riforma Poletti con il job act non è servita. Per bilanciare l’abolizione dell’art. 18 venne introdotto uno sgravio contributivo triennale fino a 8.600 euro per sostenere i contratti cosiddetti a tutele crescente. I risultati sono stati deludenti. La misura è costata quasi 20 miliardi di euro per finanziare circa un milione di nuovi posti di lavoro che sarebbero stati creati anche senza sgravio. Garanzia giovani, resto al sud ecc. sono altri esempi di incentivi a fondo perduto dai risultati modesti.

In estrema sintesi, la domanda in cerca di risposta è perché mai il contribuente italiano deve farsi carico degli aumenti retributivi ai lavoratori e degli incentivi per nuovi posti lavoro.

© StudioColosseo s.r.l. - studiocolosseo@pec.it
Il Sito è iscritto nel Registro della Stampa del Tribunale di Roma n.10/2014 del 13/02/2014