Inflazione: il conto è salato per i cittadini ma per il debito pubblico può essere una manna

Con la guerra in Ucraina la spirale inflazionistica si è consolidata. Si svalutano i patrimoni. Aumenta la spesa dello Stato per gli interessi, ma diminuisce lo stock del debito

Pensavamo di averla sconfitta in modo definitivo. Invece l’inflazione è tornata con improvvisa prepotenza. La corsa dei prezzi ha accompagnato i baby boomer per lunghi tratti della vita, mentre un millenial conosce l’inflazione soltanto attraverso i dizionari di economia.

I primi 21 anni dell’euro sono stati sinonimo di inflazione bassa, a volte anche troppo bassa, e tassi di interesse prossimi allo zero. L’uscita dalla pandemia ha innescato una accelerazione dell’economia che, insieme a difficoltà nel perimento di molte materie prime, ha avviato la rincorsa dei prezzi a livello globale e con la guerra in Ucraina la spirale inflazionistica si è consolidata.

Negli Stati Uniti l’inflazione è tornata ai livelli dei primi anni ’80, nell’area euro non si vedevano aumenti intorno al 7% da quasi 30 anni. E quando galoppa l’inflazione si guarda alle banche centrali che detengono il potere di governare l’andamento dei prezzi. L’esperienza degli anni ’70 è servita a imparare la lezione che prezzi fuori controllo sono il male assoluto per l’economia, soprattutto per le fasce più fragili con redditi bassi. Ma rispetto a mezzo secolo fa il tessuto economico ha subito una profonda trasformazione. Il peso dell’energia, gas e petrolio, si è ridotto in modo rilevante. In Europa con l’euro è stata costruito un sistema di difese efficace, il sistema di cambi fissi mette al riparo da sciagurate svalutazioni.

L’Italia più esposta a pagarne gli effetti negativi

E tuttavia all’interno dell’Eurozona, i singoli paesi presentano situazioni molto differenziate. L’Italia ad esempio è tra i più esposti a pagare gli effetti negativi delle fiammate inflazionistiche. Le cause sono l’elevato debito pubblico e una crescita economica asfittica che non consente alle retribuzioni di salire, evitando una compressione del potere d’acquisto delle famiglie.

Osservando i mercati finanziari, la debolezza delle finanze pubbliche italiane è tornata sotto i riflettori, come dimostra l’allargamento dello spread, il differenziale tra i tassi italiani e quelli tedeschi. In realtà è da quasi un anno che i mercati hanno cambiato la percezione sui titoli di Stato della Repubblica. Ad agosto dell’anno scorso il Tesoro emetteva Btp decennali pagando un interesse dello 0,80% l’anno. Per una emissione da 3 miliardi significa un onere di 240 milioni di euro in 10 anni. All’ultima emissione il Btp 10 anni è stato piazzato al 3,40%, con relativo onere di circa un miliardo complessivo.

Sempre ad agosto dell’anno scorso il rendimento medio dei titoli di Stato italiani (Bot, Btp e Ctz) era allo 0,26% mentre a maggio ha toccato il 2,19%. Il costo del debito pubblico è aumentato notevolmente in appena 10 mesi, se i tassi non saliranno ulteriormente nel 2022 la spesa per interessi segnerà un incremento di almeno 24 miliardi rispetto all’anno scorso.

Tuttavia l’inflazione va in soccorso al debito dello Stato, svalutandone lo stock. L’aumento dei prezzi erode i patrimoni ma anche i debiti. Chi è molto indebitato quindi trae vantaggi da un’inflazione sostenuta. Lo Stato ci guadagna come debitore e un altro beneficio è l’incidenza del debito. Il valore nominale del Pil aumenterà in modo più robusto rispetto alla crescita del debito con l’effetto che l’Italia migliorerà il rapporto tra debito e prodotto interno lordo.

Fondamentale è la politica della Banca Centrale Europea

Gli effetti positivi però finiscono qui. La maggior parte degli italiani non è indebitata, in ogni caso il debito privato è ben inferiore rispetto ad altri paesi, mentre rimane elevato il patrimonio. Una condizione di grande svantaggio. L’inflazione riduce il valore dei patrimoni (ampi e diffusi a partire dalle abitazioni) e riduce l’esposizione dei debiti (pochi e concentrati).

A breve termine per i conti pubblici dell’Italia sarà fondamentale la politica che assumerà la Banca centrale europea e qualche riserva è obbligatoria. A Francoforte non c’è Mario Draghi ma Christine Lagarde che nei giorni scorsi ha commesso una gaffe clamorosa. Nel giro di 48 ore è passata dall’annuncio dalla fine delle politiche espansive provocando il terremoto sui mercati all’assicurazione di studiare uno scudo anti spread. Un autogol rispetto alla credibilità delle politiche monetarie che tuttavia evidenzia un vulnus nel sistema di governance dell’euro.

Il rischio è alimentare tensione sociale in occasione dei rinnovi contrattuali

Il quantitative easing ideato da Draghi, l’acquisto di qualsiasi asset finanziario, per aiutare la convergenza dello spread erano la classica pezza. E tale è rimasta. Non può essere competenza della Bce assicurare tassi di interesse omogenei per non compromettere la sostenibilità dei conti pubblici. Senza arrivare alla condivisione del debito tra i paesi euro, sarebbe stato sufficiente costituire una Agenzia europea del debito pubblico, come suggerito da qualche esperto, a cui affidare il potere di intervento sul delicato tema del debito pubblico.

L’altro conto salato che presenta l’inflazione riguarda consumi e redditi. Il rischio è alimentare una nuova tensione sociale nella fase dei rinnovi contrattuali. Per l’anno in corso la situazione è relativamente tranquilla in quanto il riferimento all’inflazione riguarda il 2021. Ma i rinnovi dell’anno prossimo dovranno fare i conti con un tasso di inflazione almeno del 6%. Se l’andamento dell’economia dovesse tornare stagnante è prevedibile che le imprese non vorranno/potranno riconoscere aumenti per coprire il rialzo dei prezzi, con inevitabile riduzione del potere d’acquisto dei lavoratori e quindi contrazione dei consumi. La convinzione della politica in Italia e in Europa è che il prossimo anno la traiettoria dei prezzi torni a scendere, ma sarebbe preferibile considerarlo un auspicio più che una certezza e definire strategie e strumenti per non rivivere gli incubi degli anni ’70.

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