Slogan, etichette e luoghi comuni sono ormai i tratti della politica italiana che mette tutto in un frullatore con l’unico effetto che coerenza e responsabilità diventano accessori insignificanti. La maggioranza di destra-centro però si spinge oltre in una sorta di Giano bifronte politico: le promesse servono soltanto a vincere le elezioni, il programma di governo è un’altra storia.
Una strategia aiutata dai mezzi di comunicazione che preferiscono la superficialità delle polemiche rispetto alla profondità dei contenuti. Non sorprende che l’ultimo intervento dell’ex presidente della Bce Mario Draghi sull’Economist sia stato letto strumentalmente come un sostegno alle posizioni del governo Meloni e un messaggio alle cancellerie di Francia e Germania.
In realtà Draghi ha rinnovato il messaggio che lancia da oltre un decennio. L’introduzione dell’euro è stata una brillante scelta politica i cui benefici erano superiori alle imperfezioni tecniche. L’idea era che la moneta comune avrebbe vincolato i paesi nella direzione di una progressiva unità politica e quindi di una maggiore centralizzazione della politica economica come base per l’unione fiscale.
Una camicia di forza imposta dai tecnocrati di Bruxelles
Un percorso che procede a strappi, con accelerazioni e frenate, talvolta con passi indietro. Siamo in mezzo al guado, un punto che non permette di tornare indietro ma c’è ancora un bel tratto da fare per completare l’attraversamento del fiume.
Rivedere il patto di stabilità, modificare i trattati, rafforzare le politiche sulla digitalizzazione e la transizione green potenziando le risorse i programmi condivisi non sono un assist al governo Meloni, ma l’agenda dei passi da compiere per rafforzare l’Europa. Il governo invece sta realizzando una mutazione, Meloni, Giorgetti, Tajani stanno scoprendo le virtù dell’austerità, dopo averla dipinta come la camicia di forza che ci è stata imposta dai tecnocrati di Bruxelles. Ma l’austerity non è un’ideologia, e nemmeno uno stile di vita. Al più è l’insieme di comportanti che ispirano gli Stati, come ogni famiglia per affrontare fasi complesse.
E tuttavia il vero buco politico nella strategia della maggioranza di destra-centro si coglie su due aspetti. La convinzione che gli spazi di manovra per la legge di bilancio dipendono dalle concessioni della Commissione UE, piuttosto che dalla credibilità finanziaria dell’Italia. I mercati non sono una setta segreta che realizza complotti, ma in larga parte rappresentano i risparmi delle famiglie italiane che finanziano il debito pubblico di cui ne posseggono quasi 1.700 miliardi di euro tra Bot e Btp. La seconda è l’incapacità di coniugare prudenza nella spesa pubblica e utilizzo della leva fiscale per favorire lo sviluppo e rispondere alle esigenze sociali.
Unici punti fermi il taglio del cuneo fiscale e i sostegni alla natalità
Nel puzzle della prossima finanziaria i punti fermi sono la conferma del taglio del cuneo fiscale e i sostegni alla natalità. La ristrettezza delle risorse è tale che a Palazzo Chigi stanno seriamente pensando di replicare lo schema dell’anno scorso, e cioè una manovra che dura sei mesi invece dell’anno intero. Spendere i pochi soldi in modo visibile e rapido. Da questo approccio nascono la detassazione delle tredicesime, qualche sostegno contro il caro carburante per i redditi bassi, l’assegno per la natalità. L’obiettivo è arrivare alla scadenza delle elezioni europee potendo sbandierare qualche misura per gli italiani. Si fa di necessità virtù. Se fino a un anno fa il contrasto all’immigrazione era il mantra delle destre, oggi davanti a sbarchi triplicati è meglio qualche prova muscolare sull’ordine pubblico.
Navigare a vista è rotta del governo che profonde energie nella ricerca di nemici, l’opposizione, la stampa, poteri forti, i burocrati di Bruxelles, immigrati e Superbonus. Dopo il reddito di cittadinanza, gli incentivi all’edilizia sono nel centro del mirino, un alibi per spiegare la ristrettezza delle risorse.
Superbonus: senza proroga 12 mila edifici coi lavori sospesi
Meloni e Giorgetti sembrano incuranti che le exit strategy non si possono realizzare dall’oggi al domani perché si tocca la carne viva delle persone e delle imprese. Il Superbonus, come ha ribadito Bankitalia, non può essere permanente, ma il suo superamento pone due questioni rilevanti: come uscirne e con quali strumenti sostituirlo. Sulla seconda il governo non ha alcuna idea, sulla prima si affida all’improvvisazione. Un’uscita traumatica sarebbe catastrofica per migliaia di famiglie che hanno avviato i cantieri con il 110%. Se i lavori non termineranno entro fine anno il beneficio scenderà al 70% come prevede la rimodulazione decisa a novembre dal governo. Sulla base dei dati Enea si può stimare che ci sono ancora oltre 20mila condomini con lavori in corso, per un controvalore di oltre 12 miliardi.
Per questo motivo è allo studio una proroga come quella per le villette a condizione che a fine settembre lo stato avanzamento lavori fosse almeno al 30%. Secondo alcune indiscrezioni Palazzo Chigi è intenzionato ad allungare i tempi di tre mesi ma solo per quei cantieri che abbiano raggiunto il 60% dell’intervento. Con un vincolo del 60% la proroga è inutile: chi ha raggiunto quello stato di avanzamento completerà i lavori entro fine anno. E’ invece verosimile che al 30 settembre oltre la metà dei cantieri sarà sotto quella soglia per cui rischiamo di vedere 11-12mila edifici con i ponteggi, ma senza lavori in corso, a meno che i condomini non mettano mano al portafogli. Ma la nuova inquilina di Palazzo ha scoperto il fascino irresistibile dell’austerità.