Manovra: finanziaria e lotta all’inflazione, il Governo non rinuncia alla propaganda

Nessun impegno per favorire la concorrenza nel mercato elettrico, banche e assicurazioni e per ridurre rendite ingiustificate delle partecipate pubbliche nei trasporti, rifiuti e acquedotti

Provoca un certo stupore ascoltare la premier, quasi tutti i ministri (ad eccezione di Matteo Salvini) e i principali esponenti della maggioranza che predicano prudenza e responsabilità sui conti pubblici. Una inversione di rotta di 180 gradi per chi ancora un anno fa annunciava di scardinare le regole europee su immigrazione e patto di stabilità.

La nota di aggiornamento al documento di economia e finanza traccia le coordinate della prossima legge di bilancio e per gli italiani le notizie sono tutt’altro che positive. Per confermare almeno il taglio del cuneo fiscale e alcuni sostegni alle famiglie meno abbienti le risorse saranno finanziate in deficit. Il disavanzo previsto al 3,6% a fine anno sarà alzato al 4,3% per l’anno prossimo e non ci sarà alcuna riduzione del rapporto tra Pil e debito pubblico.

I mercati finanziari alla finestra

Il ministro Giorgetti è dovuto ricorrere ad alcune acrobazie per spiegare la manovra e forse ha convinto qualche organo di stampa, certamente non i mercati, che hanno reagito in modo negativo sui titoli di Stato italiani riportando lo spread in area 200 punti.

Il ministro dell’Economia e la premier sembrano ignorare un elemento fondamentale sul quale costruire la credibilità finanziaria del Paese. Gli spazi di bilancio, l’articolazione della spesa pubblica non sono il frutto delle trattative con la Commissione europea, ma dipendono dalla fiducia che il governo riesce a conquistare sui mercati, convincendo coloro che sottoscrivono il debito pubblico (quasi il 70% è in mano ai risparmiatori/elettori italiani).

Questa premessa smonta la lettura che il governo Meloni sta seguendo l’agenda Draghi, al più la scimmiotta goffamente. Le prime crepe alla credibilità sono state provocate dalla tassa sugli extraprofitti delle banche (con clamorosa retromarcia), il tetto al prezzo dei biglietti aerei, il dimezzamento delle risorse per la decarbonizzazione dell’ex-Ilva di Taranto.

Nel merito la deludente manovra che verrà è spiegata dal governo con argomenti poco credibili. Il primo è che l’orizzonte della maggioranza è l’intera legislatura e dunque ci sarà tempo per realizzare le mirabolanti promesse elettorali. Il secondo è che gli spazi di manovra sono esigui per colpa del superbonus 110% e della politica restrittiva della Bce che alza continuamente i tassi di interesse per far scendere l’inflazione.

Il superbonus diventa un’ossessione e si apre la via alle privatizzazioni

Il Superbonus rappresenta la vera ossessione di Giorgetti che ha fatto bocciare in Senato tutti gli emendamenti per la proroga ai condomini con i cantieri avviati, anche quelli presentati da esponenti della maggioranza. Il ministro ha detto che a causa del Superbonus il deficit 2024 sarebbe al 5,3% e per stabilizzarlo al 4,3% ha previsto incassi da privatizzazioni per 20 miliardi. Una mezza verità in quanto la quota di Superbonus per il 2024 è stata già contabilizzata nel 2021 e 2022 dopo la riclassificazione dei conti pubblici fatta da Eurostat.

Difficile invece capire cosa venderà il Mef per incassare 20 miliardi in un anno. Curiosamente poi il governo spinge sulle privatizzazioni con la mano sinistra mentre con la destra impegnerà circa 2 miliardi per acquistare una quota di minoranza nella società dove dovrebbero confluire (il condizionale è obbligatorio) la rete TIM e quella di Open Fiber.

È alterazione della realtà invece il peso dei tassi di interesse a causa delle scelte della BCE. Le emissioni di Bot e Btp negli ultimi 12 mesi mostrano rendimenti stabili. Dunque nonostante i quattro rialzi del costo denaro i risparmiatori non hanno chiesto interessi più alti al Mef. Il problema è che nel Documento di economia e finanza del marzo scorso il Governo ha previsto una spesa per interessi pari al 3,6% del Pil (circa 55 miliardi) quando l’anno precedente era stata del 4,4%. È molto probabile che l’anno prossimo il costo del debito pubblico sarà più vicino al 4% che non al 3,6% del Pil con conseguente erosione di risorse pubbliche. L’auspicio è che il calo dell’inflazione diventi più vigoroso nei prossimi mesi così da consentire almeno la stabilizzazione dei tassi da parte della Bce.

L’inflazione scende meno che nella Ue, e il patto del governo contribuirà a poco

E qui c’è un altro elemento preoccupante per l’economia italiana. A settembre l’inflazione è scesa in modo molto marginale dal 5,4 al 5,3% mentre nell’area euro la dinamica dei prezzi ha mostrato una frenata consistente scendendo dal 5,2 al 4,3%. Il governo ha avuto la brillante idea di proporre un patto anti inflazione al sistema produttivo, alla distribuzione e al commercio sui beni di prima necessità. L’impegno delle aziende è di calmierare i prezzi sui beni di prima necessità, fermo restando la libertà d’impresa. Il patto durerà fino alle festività natalizie. Sull’efficacia ci sono molti dubbi. Le imprese assumono un impegno ma non c’è alcun vincolo e obbligo. E poi da oltre un mese assistiamo a nuovi rincari dei prodotti energetici, dalle bollette ai carburanti che lasciano poco spazio di intervento sui listini prezzi.

Il patto sembra più rispondere alle logiche della propaganda che a strategie per favorire il raffreddamento dell’inflazione. Il governo ritiene che l’economia si possa governare con il dirigismo statalista ma la realtà è ben diversa. Invece di accusare tutti i giorni la Bce di aumentare il costo del denaro, governo e maggioranza dovrebbero impegnarsi a favorire la concorrenza in settori rilevanti come il mercato elettrico, banche e assicurazioni, eliminare o almeno ridurre rendite ingiustificate di cui beneficiano soprattutto le partecipate pubbliche (trasporti, rifiuti, acquedotti).

Ma di tutto ciò non c’è traccia nella legge annuale sulla concorrenza, meglio prendersela con fantomatici poteri forti e il maledetto Superbonus.

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