La questione rifiuti a Roma si ripropone con la velocità di un centometrista e la precisione di un orologio svizzero. Un film già visto troppe volte, un copione vecchio e stantio che mette insieme il lato peggiore del capitalismo municipale, la mancanza di programmazione ed il conflitto di interesse della politica che gioca a ricoprire, male, troppi ruoli.
L’ultima puntata dell’emergenza rifiuti sconta l’ennesima contrapposizione tra Regione e Comune ma sarebbe fuorviante ridurre i contrasti a motivi di campagna elettorale. Il caos è la summa di circa 15 anni di immobilismo. L’ultimo tentativo per dare a Roma una strategia programmatica per la gestione dei rifiuti risale alla giunta Veltroni con la decisione di far acquisire la discarica di Malagrotta all’Acea, operazione però mai andata in porto. Dopo Veltroni la giunta Alemanno non è andata oltre un flebile annuncio di cedere una quota del 40% di AMA ai privati, Marino e la stessa giunta Raggi non pervenuti. In mezzo c’è stato il parziale svuotamento del decreto Ronchi, uno dei pochi provvedimenti lungimiranti che di fatto (1997) ha anticipato le principali direttrici europee in materia di rifiuti.
Conferire Malagrotta all’Acea rappresentava il primo tassello per definire una strategia sul riciclo. Altra cosa rispetto alle proposte che circolano tra alcuni candidati per Roma di far acquisire AMA da Acea. E’ vero che le principali multiutility da A2A a Iren gestiscono un pezzo rilevante del ciclo rifiuti ma nessuna si occupa della raccolta. La fusione sembra più rispondente a logiche economico-finanziarie che strategiche e industriali.
Tuttavia c’è una debordante presenza pubblica che in comparti come i rifiuti e l’acqua è motivata con la necessità di tutelare l’interesse generale (quale?), garanzia contro le pratiche scorrette e monopolistiche dei privati. Peccato che l’acqua abbia subito i maggiori incrementi tariffari negli ultimi 10 anni e per i rifiuti non c’è nemmeno una tariffa, bensì un’imposta completamente sganciata dalla qualità del servizio offerto a cittadini e imprese. I romani pagano la Tari più cara d’Italia con una percentuale di differenziata ben al di sotto della media nazionale (46% secondo AMA ma qualche riserva è lecita). La motivazione del Comune, assai bizzarra, è che servono più risorse per smaltire i rifiuti fuori il raccordo.
Da un’indagine svolta dall’Autorità Antitrust emerge che nella gestione dei rifiuti si assiste in modo sistematico al modello in-house con conseguente ingerenza degli enti locali che rivestono ruoli tra loro incompatibili: regolatori del servizio e regolati. Inoltre l’eccessivo ricorso al modello in-house spesso avviene ignorando i requisiti formali previsti dall’ordinamento europeo e impedendo di fatto qualsiasi confronto concorrenziale con l’unica conseguenza certa che in una gara a evidenza pubblica non è fornita alcuna garanzia in termini di efficienza del servizio.
Altre particolarità sono la durata degli affidamenti (in media 10 anni contro i 5 che garantiscono il ritorno dell’investimento) e l’eccessiva estensione degli ATO (Ambito territoriale ottimale).
Il conflitto di interessi in capo agli enti locali inoltre non consente un chiaro accertamento di responsabilità e favorisce una sconcertante libertà di indicare obiettivi irrealizzabili. Il Lazio ha un piano rifiuti secondo il quale la differenziata al 2025 dovrà essere almeno al 70% ma in nessun ATO della Regione è stato adottato un piano d’ambito. Situazione che ha dell’incredibile alla quale contribuisce la stratificazione pianificatoria.
Così la giunta Raggi in appena 5 anni passa dall’obiettivo rifiuti zero al 2021 vagheggiando riduzioni del 10% l’anno della produzione rifiuti ma ignorando la continua chiusura di discariche e impianti. Nel 2018 Roma rivede gli obiettivi indicando la differenziata al 73% entro il 2021 e promettendo l’individuazione di tre siti per realizzare impianti di smaltimento. Da allora un silenzio assordante anche sul la circostanza che nel 2019 la giunta Raggi prende atto che Roma necessita di discariche. Tre mesi fa il nuovo piano dell’AMA: differenziata al 61% entro il 2025 (ma non si comprende come considerando che in 5 anni è passata dal 43 al 46%) e 340 milioni di risorse aggiuntive mentre il comune ingaggia una battaglia legale con la Regione che obbliga Roma e AMA a definire un piano impiantistico per l’autosufficienza. Il Comune ricorre al Tar secondo il quale la Regione non può imporre l’obbligo ma bacchetta la giunta Raggi per non aver disposto alcun piano. Eppure Comune e Regione a fine 2020 annunciavano di aver trovato l’accordo per l’individuazione di un sito per realizzare la discarica. Misteri della politica che continua ad eludere le tre vere questioni: uscita da una gestione illegale, trattamento operativo della differenziata e riduzione dei costi. Il resto è solo noia e propaganda.