Occupazione: Il falso problema del blocco dei licenziamenti

Non servono i divieti ma strumenti e politiche attive. Il caso Roma: un occupato su tre è laureato, primeggia per start-up innovative, ma non c’è un Politecnico

I licenziamenti annunciati dalla GKN e quelle confermati dalla Whirlpool a Napoli rischiano di innescare un clima di tensione sociale ma soprattutto di confondere cause ed effetti. La fine del blocco dei licenziamenti generalizzato segna l’avvio concreto dell’exit strategy rispetto alle misure emergenziali per fronteggiare gli effetti della pandemia.

Tuttavia, non bisogna cadere nella distorsione ottica di immaginare che il ritorno graduale alla normalità significa ripristinare una comfort zone per il sistema produttivo.  Due decenni a crescita zero sono la testimonianza che la pandemia ha soltanto amplificato la sequenza di problemi strutturali che rendono impervio il percorso dello sviluppo economico e sociale.

La questione non è la durata del divieto a licenziare ma quali strumenti e politiche mettere in campo per sostenere le persone che perdono il lavoro e per favorirne il reinserimento occupazionale. Quali misure per accompagnare le profonde trasformazioni accantonando l’idea tutta italiana che i decreti creano lavoro e azzerano la povertà.

Il blocco dei licenziamenti non ha impedito la perdita di 900mila occupati. Occorre favorire mobilità verso settori con posti vacanti

Le condivisibili motivazioni sociali ed economiche che hanno portato a “ibernare” il sistema produttivo durante la pandemia non devono far dimenticare che il blocco dei licenziamenti non ha impedito la perdita di oltre 900mila occupati evidenziando un sistema che salvaguardia i posti di lavoro ma trascura i lavoratori. Più che mai servono strumenti efficaci per le politiche attive, per favorire ogni occasione di crescita dell’occupazione e la mobilità verso quei settori che scontano tassi di posti vacanti maggiori anche di tre volte la media nazionale (in particolare costruzioni e servizi alle imprese) con picchi nelle micro imprese.

Prima dell’esplosione della pandemia al Ministero dello sviluppo economico c’erano 167 tavoli sulle crisi aziendali (tra cui la Whirlpool) rispetto ai quali è evidente che il blocco dei licenziamenti non rappresenta nemmeno una soluzione parziale. Inoltre continua a manifestarsi un residuato culturale secondo il quale il manifatturiero è l’architrave del sistema economico nonostante da tempo esprima soltanto il 20% del valore aggiunto e il 30% dell’occupazione.

A Roma hanno chiuso 3.000 imprese.  80mila posti di lavoro ancora a rischio dopo i 30mila già persi.  

Insomma la perdita di oltre 3mila imprese a Roma nell’anno pandemico non fa notizia e nemmeno alcune stime che indicano circa 80mila posti di lavoro a rischio nella capitale.

Nell’area Roma Metropolitana a fine del 2020 il tasso di occupazione si attestava al 62%, sopra la media nazionale, ma in calo di oltre due punti rispetto all’anno precedente e si può stimare che nei dodici mesi alle spalle la perdita di posti di lavoro abbia superato le 30mila unità.

Negli ultimi anni l’occupazione mostra un trend positivo a Roma e nel Lazio, con una dinamica ben superiore a quella nazionale. Tra il 2009 e il 2019 gli occupati a Roma sono aumentati del 12% a fronte di un +1,2 in Italia. Nonostante le difficoltà storiche del settore delle costruzioni che nella Capitale rappresenta uno dei comparti principali ma che nell’ultimo decennio ha perso il 14% degli occupati ai quali si affianca il 10% dell’industria in senso stretto.

Occorrono incentivi per il Superbonus 110%, ostacolato dalle lentezze burocratiche. 10.000 i cantieri aperti, ma  il Lazio non compare fra le prime cinque regioni.  

Per la città gli incentivi alla riqualificazione degli edifici come il Superbonus 110% rappresentano una opportunità formidabile che non sembra essere colta. Secondo i dati più aggiornati sono oltre 10 mila i cantieri aperti in Italia ma nelle prime cinque posizioni figurano Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, Campania e Calabria. Non c’è traccia del Lazio. Comune e Regione invece dovrebbero favorire uno strumento potente sia per la riqualificazione urbana e sia per lo stimolo economico. Il primo passo dovrebbe essere un’azione di semplificazione amministrativa considerando che il catasto di Roma rappresenta l’emblema della inefficienza burocratica con il record negativo per i tempi di accesso agli atti. Ma si possono mutuare esperienze positive che stanno emergendo nel paese. Ad esempio alcuni Comuni offrono la fibra ottica nei condomini o l’illuminazione pubblica a led nelle strade dove vengono realizzati gli interventi di riqualificazione edilizia. Sarebbe anche l’occasione per invertire la rotta della spesa per investimenti che a Roma è in progressiva flessione da 12 anni.

La crescita dell’occupazione invece è stata trainata dal terziario e in particolare da immobiliare, servizi alle imprese e finanziari con incrementi di oltre il 20%. Si tratta inoltre di settori ad alta qualificazione tant’è che i laureati a Roma rappresentano il 33% degli occupati contro il 23% della media nazionale. Ma Roma si distingue anche per le start-up innovative posizionandosi ai primi posti in Italia e l’innovazione non la realizzano le grandi imprese ma giovani visionari come hanno dimostrato Microsoft, Apple, Google. E nella capitale non c’è ancora un Politecnico.

In modo silenzioso l’economia romana nell’ultimo decennio mostra una profonda trasformazione nonostante le crisi globali e gli scandali in successione che hanno colpito la città, ma la politica e le istituzioni non sembra se ne siano accorte. Anche in questa campagna elettorale il vocabolario dei candidati difetta per visione e futuro.

 

 

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