La definizione partito di lotta e di governo coniata negli anni ’70 per il PCI di Enrico Berlinguer ben si adatta oggi al partito della Premier e alla Lega di Salvini che sembrano rimpiangere la comfort zone che assicura lo stare all’opposizione. L’operazione per Giorgia Meloni si sta rivelando tuttavia piuttosto complicata a causa di promesse insostenibili in campagna elettorale e della difficoltà di far convivere l’anima “produttivista” con i rigurgiti dei valori della destra sociale. In più la premier sembra la degna erede di Giulio Andreotti, sfoggiando una notevole abilità tattica per cercare di nascondere l’assenza di una strategia politica ed economica. Il vertice a Palazzo Chigi con le opposizioni sul salario minimo, il decreto ultimo che spazia dalle licenze dei taxi alla tassazione degli extraprofitti delle banche, le critiche alla politica monetaria della BCE delineano il campo di gioco sul quale si sta esercitando Giorgia Meloni tra incertezze e contraddizioni.
Il dossier sul salario minimo rappresenta l’emblema del tatticismo meloniano. Convintamente contraria, ha deciso di aprire il confronto con le opposizioni ma senza presentare una proposta governativa. Anche all’incontro con le opposizioni a Palazzo Chigi Meloni ha ribadito di non vedere con favore la misura, ma non intende lasciare al centro-sinistra il primato su un tema assai sentito nel Paese.
Coinvolti il Cnel e le parti sociali
La novità del vertice è la proposta della premier di coinvolgere il Cnel e le parti sociali per avviare un confronto largo per definire una proposta condivisa per assicurare retribuzioni adeguate ai lavoratori. Due mesi di tempo per verificare la possibilità di un’intesa contando che poi i riflettori si sposteranno sulla legge di bilancio e i decreti attuativi della delega fiscale.
Il governo confida sulla chiusura di imprese e sindacati all’ipotesi della legge sul salario minimo. Solo la Cgil è favorevole, ma il fronte si sta allargando. La stessa Confindustria di Bonomi che negli ultimi tempi non brilla in fatto di proposte politiche, ha compreso che sul salario minimo non è il caso di fare le barricate. Anche le altre associazioni imprenditoriali non sono orientate ad andare allo scontro sul provvedimento tanto più se il Parlamento fosse disponibile ad approvare una legge sulla rappresentanza delle associazioni di categoria che sarebbe il principale antidoto al fenomeno dei contratti pirata.
Imprese e sindacati inoltre sembrano aver compreso che non è più sostenibile invocare la contrattazione di qualità per assicurare retribuzioni adeguate, quando il livello dei salari in Italia non conosce avanzamenti da oltre 20 anni.
Il rischio del dibattito politico è che il salario minimo diventi lo strumento per riposizionamenti tra i due schieramenti, tattiche di piccolo cabotaggio nel tentativo di non concedere alcun tipo di vantaggio agli avversari.
La garanzia di retribuzioni dignitose non basta per risolvere le croniche debolezze della nostra economia
La stessa proposta delle opposizioni si presta a interpretazioni diverse. Il motivo è che il dibattito per introdurre il salario minimo per legge stenta ad affrontare una serie di questioni rilevanti per restare confinato in un ambito assai ristretto che vede due schieramenti eterogenei contrapposti ma a perimetro variabile come dimostra la virata della premier.
Ad esempio non trovano spazio due elementi cruciali come le consistenti differenze territoriali del potere d’acquisto e la poca trasparenza della composizione delle retribuzioni. Emblematica, sul secondo punto, la notizia sulla stampa di 22 contratti sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil sotto i 9 euro, ignorando che il minimo tabellare non corrisponde al trattamento economico complessivo che prevede diverse voci, anche componenti differite, come scatti di anzianità, indennità, ecc.
Altri temi rilevanti sono la rigidità del modello contrattuale che ha alimentato i fenomeni degli accordipirata e dell’aziendalizzazione dei contratti. E la mancata affermazione della contrattazione di secondo livello. Gli ultimi dati indicano 7.650 contratti depositati tra aziendali e territoriali per un totale di appena 2,5 milioni di lavoratori. Anche su questa voce il gap tra Nord e Sud tende ad ampliarsi. Il 71% dei contratti è operativo al Nord e solo l’11% nel Mezzogiorno. Per chiudere il cerchio, la modesta capacità di controllo sull’applicazione dei contratti collettivi e l’efficacia automatica di ogni contratto a prescindere dal livello di rappresentatività dei firmatari.
In tale contesto immaginare che una norma generale sia la soluzione dei problemi e la garanzia di retribuzioni dignitose significa ignorare le croniche debolezze dell’economia italiana che soffre di bassa produttività e scarsi investimenti.
Criticità che non si risolvono con slogan e provvedimenti populisti, ma con una robusta azione per favorire la concorrenza e l’apertura dei mercati, a cominciare dalle rendite di posizione degli enti locali.