La vendita della rete da parte di TIM al fondo americano KKR rappresenta una tappa rilevante nel ventennale romanzo delle tlc italiane. Tuttavia si tratta di un’operazione il cui esito è incerto. Vivendi, principale azionista di TIM con il 24%, annuncia battaglie legali, chiede che la cessione passi per l’assemblea degli azionisti dove il gruppo francese può far pesare il suo pacco di azioni.
Vivendi è sempre stata contraria alla vendita della rete, solo nell’ultimo anno ha aperto a tale possibilità ma fissando una valutazione di almeno 31 miliardi, mentre l’offerta KKR al massimo può raggiungere i 22 miliardi. La richiesta francese è certamente eccessiva ma il gruppo controllato dal finanziere Vincent Bolloré ha investito 4 miliardi in Tim e ai valori attuali accusa una perdita di circa 3 miliardi.
In borsa TIM vale appena 4,5 miliardi di euro. A titolo di confronto Telefonica supera i 20 miliardi, Orange (l’ex France Telecom) capitalizza 30 miliardi mentre Deutsche Telekom sfiora i 110 miliardi.
A fine settembre l’indebitamento ammonta a 25 miliardi di euro
Il basso valore di TIM dipende dall’elevato debito che appesantisce l’ex monopolista dai tempi della scalata di Roberto Colaninno e degli imprenditori bresciani. A fine settembre ammonta a oltre 25 miliardi e rappresenta un autentico fardello. L’amministratore delegato di TIM, Pietro Labriola, l’ha spiegato a chiare lettere presentando i risultati del terzo trimestre. “Il margine operativo è migliorato di 300 milioni ma è stato neutralizzato dall’aumento dei tassi di interesse. Possiamo migliorare la redditività il più possibile ma se non miglioriamo il debito è difficile”.
La vendita della rete consente di abbattere il debito a 14 miliardi, facendo di TIM una società con un profilo finanziario normale. I conflitti di interessi tra i vari azionisti, lo Stato e il mercato finora hanno impedito di trovare una soluzione. Per contrastare Vivendi, il governo Renzi si inventò Open Fiber e oggi è evidente che il mercato italiano non può sostenere due reti in fibra in concorrenza. Inoltre l’Italia vanta il mercato tlc più competitivo in Europa con 5 operatori (più quelli virtuali) mentre in Francia sono 4 e in Germania 3. Secondo le rilevazioni dell’Autorità europea di regolazione, i prezzi in Italia sono molto più bassi che in Francia e Germania, appena 16 euro mensili in media per il mobile contro i 24 euro in Francia e i 30 in Germania.
La separazione della rete presenta difficoltà tecniche, economiche e giuridiche
Dalla prospettiva del mercato e dei consumatori la vendita della rete è positiva in quanto consente di accelerare lo sviluppo dell’infrastruttura per la banda ultra-larga e per il mobile. Al tempo stesso l’Autorità Antitrust e l’autorità di regolazione delle tlc dovranno essere molto vigili per evitare ingiustificati aumenti delle tariffe. Ma la separazione della rete presenta alcune difficoltà tecniche, economiche e giuridiche.
La prima riguarda il conferimento della rete. Oltre all’infrastruttura fisica quanti dipendenti e quanto debito passeranno da TIM alla nuova società e quali saranno i rapporti tra la società della rete e la TIM commerciale. Poi c’è il capitolo della rete unica che rappresenta l’obiettivo del Governo attraverso l’integrazione tra la rete TIM e quella di Open Fiber. La fusione è molto complicata nonché con profili di conflitti di interesse in capo allo Stato dal momento che Cassa depositi e prestiti è azionista di TIM, probabilmente entrerà anche nel capitale della società della rete acquisita da KKR ed è il socio di maggioranza di Open Fiber che naviga in cattive acque finanziarie e non sta raggiungendo gli obiettivi in termini unità immobiliari cablate.
La chiusura dell’integrazione tra tlc e tv un limite allo sviluppo
Il rischio da scongiurare è che la creazione della rete unica sia l’occasione per sistemare Open Fiber, insomma non dovranno essere i clienti e i contribuenti a pagare il conto di scelte infelici. Lo Stato avrà un ruolo di primo piano, il governo ha deciso che investirà fino a 2 miliardi di euro per rilevare una quota della nuova società della rete. Per il partito di Giorgia Meloni la rete deve essere a controllo pubblico mentre per il ministro Giorgetti e la Lega è sufficiente la presenza dello Stato nell’azionariato. Tuttavia non si comprende quali competenze possa offrire la mano pubblica per sviluppare le reti tlc. La stessa Cassa depositi e prestiti, controllata dal Ministero dell’economia, non ha certo brillato come azionista sia in TIM e sia in Open Fiber.
L’obiettivo del governo e del Parlamento dovrebbe essere la diffusione capillare della fibra e del 5G ma per centrarlo non c’è alcun bisogno di usare i soldi del contribuente e nemmeno il risparmio postale degli italiani. Così come lo Stato non può assumere il ruolo del sindacalista per tutelare l’occupazione di TIM e di Open Fiber. L’evoluzione tecnologica, la trasformazione del mercato impongono profonde trasformazioni nelle regole e nell’assetto delle imprese di tlc. Purtroppo l’Italia e l’Europa hanno imposto vincoli eccessivi e la netta chiusura all’integrazione tra tlc e tv che invece rappresenta il nuovo orizzonte. Non a caso negli Stati Uniti i telefoni di AT&T hanno comprato Direct Tv mentre Comcast dopo il network NBC ha rilevato la Time Warner Cable. E pensare che 25 anni orsono qualcuno propose la fusione tra l’allora Telecom e la Fininvest ma l’ingombrante Berlusconi avrebbe dovuto abbandonare la politica.