Il fast fashion sgretola il lusso

La moda del lusso si è montata la testa e i suoi listini prezzi corrono verso l'alto. Ma non è questo il momento e le perdite parlano di miliardi. Cresce, naturalmente, il fast fashion e lo fa con tenace continuità. Peccato che il low inquini la Terra ma il lusso con le sue folli non ci lascia scelta. Che tutti si mettano la mano sulla coscienza per rendere la moda di tutti

Per il fast fashion si prevede un giro d’affari di 185 miliardi di dollari nel 2027; una crescita spaventosa che deve far riflettere a stretto giro di collezione tutto l’universo moda, accessori e monili compresi.

Ma questi numeri che riguardano il low cost non devono stupire più di tanto perchè sono la logica conseguenza della politica seguita da tutti i brand di alta fascia o del lusso come ci piace dire di continuare a ritoccare al rialzo i propri, già impressionanti, listini. Hermes e Chanel hanno aperto la corsa alla crescita e subito dietro si sono scatenati tutti gli altri. A questo dobbiamo aggiungere che il grande bacino d’utenza rappresentata dalla classe media si è di molto assottigliato grazie, anche, all’inflazione, al non adeguamento degli stipendi e al caro servizi.

La moda del lusso spinto è cosa passata di moda un po’ come l’estremizzazione dei ritocchini estetici.

Questo non vuol dire che la nostra classe socio-economica abbia deciso di “chiudersi via” ma che abbia lentamente preso coscienza che le sovrastrutture a prezzo d’oro non cambiano quello che sei, che sai e che hai.

Un esempio/scempio l’abbiamo sotto gli occhi: la galleria Alberto Sordi (galleria Colonna) la cui riapertura è stata da molti media enfatizzata, tanto da paragonarla alla Burlington Arcade di Londra, è in realtà un grande flop con i pochi spazi aperti che vanno da Uniqlo a Mango da RossoPomodoro a Hamleys; marchi che mai potranno fare della nostra Galleria il salotto buono della Capitale.

Ma per tornare al vertiginoso crollo dei super brand dobbiamo proprio affermare che questo schiaffone se lo sono voluto e meritato. Ormai presentano collezioni non più in sintonia con la vita che dovrebbero raccontare, facendo sfilare favole di importabilità e inadeguatezza.

Non va, anche, dimenticato il crollo del mercato cinese che rappresentava uno sbocco sicuro con una facilità di spesa che pareva inesauribile; ma il vortice negativo dell’immobiliare ha avuto ripercussioni su tutta la vita della superpotenza.

Quando parliamo di crisi del lusso parliamo di perdite miliardarie che incidono sull’intera filiera e sulla forza lavoro che ne fa parte.

Non va dimenticato nemmeno il boom del vintage/second hand che ti permette di avere un capo di alto livello a prezzi più che accessibili. E questo è un grande esempio di economia circolare che, di contro, il low cost non può assicurare, anzi, con il suo continuo sfornare collezioni (circa 50 all’anno) inquina senza possibilità di rimedio l’intero pianeta Terra.

Provate a vendere ad un negozio second hand un capo Zara, H&M o Uniqlo e sarete sommerse da un NO violentissimo e da uno sguardo di pura compassione.

Fra i due estremi si è venuto a creare un grande buco commerciale che va riempito da un brand capace di proporre collezioni  attrattive, impeccabili, di buon livello e di ottima fattura e sempre aggiornato. Un esempio è Max Mara con la sua costellazione di varie linee e prezzi.

La Ue negli ultimi anni ha emanato novità normative “costringendo”, di fatto, anche il fast fashion a dichiarare obiettivi di sostenibilità (per esempio per la riduzione dei consumi di acqua, l’uso di materie prime riciclate ecc.) e dotarsi di certificazioni.
Ci auguriamo che in molti aderiscano prontamente ma ci auguriamo anche che i santoni del cachemire/cashmere scendano a più miti consigli e smettano di predicare bene e razzolare malissimo

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