Regionali Lazio: nuovo appello di Zingaretti all’unità

ma il campo largo è ormai un miraggio

Il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti

Per le prossime elezioni regionali del Lazio, l’idea di riproporre il “campo largo”, quello che ha visto governare insieme alla Pisana Pd, M5s, Italia Viva, Azione, Sinistra civica ecologista e Demos, a oggi sembra ormai un miraggio, nonostante i continui appelli e i tentativi di ricucire l’alleanza, soprattutto da parte del Partito democratico. Il tempo stringe, le dimissioni di Nicola Zingaretti da governatore del Lazio, a seguito della sua elezione alla Camera, annunciate dopo l’approvazione del collegato al bilancio in Consiglio, oramai sono dietro l’angolo, probabilmente il 4 novembre. E il “modello Lazio” sembra essere l’unica alternativa per fermare l’urto del centrodestra, così come auspicato più volte dallo stesso Zingaretti che ieri ha rinnovato l’appello all’unità del centrosinistra. “Dopo Ignazio La Russa, Lorenzo Fontana, e Giorgia Meloni che ha ricevuto la fiducia, faccio un ennesimo appello a Enrico Letta, Giuseppe Conte, Carlo Calenda e Matteo Renzi: non create le condizioni per dare alla destra la quarta figura monocratica in Italia: il presidente della Regione Lazio – ha dichiarato Zingaretti -. Stiamo governando insieme e in questi anni abbiamo dimostrato che con spirito innovativo e unitario, ascoltandosi si possono fare grandi cose. Nel Lazio innanzitutto le persone, gli elettori che si riconoscono nell’attuale maggioranza vogliono questo. Raccogliete questo orientamento per fare davvero di tutto per combattere uniti e vincere”, ha concluso.

La trattativa non è ancora chiusa, ma M5s e Terzo polo – forti anche degli ultimi sondaggi in crescita – potrebbero decidere di correre da soli e marcare la differenza con il Pd per erodere consenso soprattutto a livello nazionale. Andando in questa direzione, il “campo largo” sembra destinato a scomparire con le dimissioni di Zingaretti. Tanto che l’attuale vicepresidente Daniele Leodori, candidato in pectore del Pd, favorito e appoggiato da Area dem, la corrente più ampia del partito, ha fatto un passo indietro. “Non sono disponibile a candidarmi senza unità e campo largo”, ha chiarito con un lungo messaggio affidato ai social network. Intanto, però, l’esperienza dell’alleanza targata Pd e che tiene dentro M5s, Azione, Italia viva e liste civiche potrebbe essere l’unica “possibilità” in grado di competere con l’avanzata del centrodestra. Per questo, i rappresentanti locali dei diversi partiti di fatto auspicano che alla fine un accordo si trovi, dopo aver lavorato insieme negli ultimi anni. Manca, però, il via libera dei vertici nazionali. Il meno reticente è il segretario del Pd, Enrico Letta, che ha delegato la scelta “ai territori”. Il Pd in queste settimane sembra abbia provato il tutto per tutto per tenere insieme la coalizione su base locale: dalla proposta di fare comunque le primarie, nonostante i tempi stretti, a quella di convergere unitariamente su un candidato civico, che non sia espressione del Pd. Eppure, a oggi, tutti i tentativi sembrano non aver prodotto alcun risultato.

I leader del Terzo Polo, Carlo Calenda e Matteo Renzi, al momento, non assicurano la loro presenza in coalizione, o meglio non vogliono saperne di un accordo che tiene dentro il M5s: “si scelga tra populismo e riformismo”, le parole lapidarie di Calenda. Anche se questa sarebbe una scelta a dir poco pragmatica, in quanto la legge elettorale, a turno unico, impone accordi. Mentre dal canto suo il leader del M5s, Giuseppe Conte, non chiude a un confronto con i vecchi alleati del Pd, ma chiede che non ci sia un candidato divisivo e soprattutto che l’alleanza riguardi tutte le regioni al voto. A questo punto la scelta del leader M5s sarà determinante e indicativa, anche per quanto riguarda le prospettive politiche a livello nazionale e il tipo di opposizione che vuole portare avanti. In particolare, se l’obiettivo di Conte è quello di porsi come principale partito dell’area progressista la scelta non è facile. A livello nazionale, l’alleanza con il Pd, come si è visto, non ha pagato molto a livello di consensi, tanto che questi sono aumentati quando il M5s ha deciso di strappare l’alleanza, portando di fatto alla caduta del governo Draghi e a nuove elezioni. Ma potrebbe anche rischiare, quindi, di scegliere la strada della coalizione per tentare una operazione egemonica dall’interno su tutto il centrosinistra, partendo dai territori.

A prescindere dall’incognita primarie, alle quali fin qui si erano candidati l’assessore alla sanità Alessio D’Amato (più defilato dopo la condanna della Corte dei Conti) e il vicepresidente Daniele Leodori, tra i nomi che circolano, con riserva non sciolta, ci sono anche quello di Enrico Gasbarra, già deputato, europarlamentare, vicesindaco di Roma e presidente della Provincia e dell’ex ministra Marianna Madia. Al momento, quella di Leodori sembra essere la candidatura più quotata in grado di mettere d’accordo un’alleanza tra Pd-M5s e liste civiche per un campo largo “ristretto”. In questo caso non è da escludere completamente la possibilità, anche se molto remota, che D’Amato possa correre da solo con una lista civica e il sostegno del Terzo Polo. L’ora delle urne, che il Pd lo voglia o no, si avvicina. Nicola Zingaretti, eletto deputato, ha annunciato le dimissioni ai primi di novembre, lasciando delineare l’ipotesi che si possa votare ai primi di febbraio. Anche se circola voce che si possa andare a un election day, con altre elezioni regionali e amministrative, tra aprile e maggio, il tempo stringe.

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